Nel settore delle crociere, almeno a livello europeo e mediterraneo, il barometro inizia a tendere alla “turbolenza”  dopo un lungo e felice periodo impostato al “bello stabile”. Non si tratta, ovviamente di perturbazioni meteorologiche: l’analisi dei dati del consuntivo 2009 fanno intravvedere, infatti,  qualche preoccupazione. Dati che, è bene precisarlo, non si devono leggere solo come episodi congiunturali, se è vero che il primo segno di cedimento lo riscontriamo in quello più strutturale, rappresentato dalla cantieristica e se è altrettanto vero che il baricentro mediterraneo delle crociere tende a spostarsi verso sud-est, in cerca sia di mete nuove e stimolanti  (“must see” o almeno “marquee”, nella terminologia del settore), sia di nuove convenienze negli attracchi, seguendo l’ormai noto modello imposto dalle linee aeree “low-cost”.

E’ innegabile che in quest’ultimo decennio la domanda del settore sia cresciuta a ritmi surriscaldati, passando a livello mondiale, secondo l’European Cruise Council, da 8,6 a 17,5 milioni di passeggeri dal 1999 al 2009. Una domanda che ha mostrato un ritmo più accelerato in Europa (da 1,9 a 5 milioni), con incrementi ancora molto sensibili negli ultimi 2 anni (oltre il 23%), praticamente per tutti i paesi generatori (con la sola rimarchevole eccezione della Spagna) fino a rappresentare all’incirca il 29% della domanda mondiale. Più blando l’andamento per i turisti nordamericani, il cui numero dal 2006 sembra essersi assestato intorno al valore, peraltro del tutto ragguardevole, di 10,3 – 10,4 milioni di passeggeri-anno.

A fronte di questi andamenti nella domanda globale, il continente europeo (ed il “Mare Nostrum” che ne costituisce il cuore crocieristico) si confermano come una delle destinazioni più importanti del Mondo, arrivando a guadagnare  in termini di traffico il  3,2% sul 2008, per complessivi 23,8 milioni di passeggeri in transito o imbarco/sbarco (+9,4%).

Ma tra il continente europeo e quello americano la domanda tende ad equilibrarsi, con il risultato di un sostanziale pareggio nell’interscambio: tanti Europei trasvolano l’Atlantico per fare crociere in America, tanti Nordamericani fanno il contrario.

Fin qui le derive positive di un trend veramente eccezionale, che però mostra alcuni precisi sintomi di affanno quando si passa a verificare le variabili economiche ed occupazionali. Non è una novità, ad esempio, che di questa forma di turismo si sia parlato sempre come di un competitore agguerrito sul mercato dei viaggi “all inclusive”, in grado di sottrarre quote, in particolare, ai villaggi turistici (vero prototipo del turismo “senza territorio”). Ma quando lanciamo l’allarme è perché i segnali che ci pervengono lasciano intravvedere un futuro non più tanto roseo per i Cruise Operators:  mentre infatti nel 2009-2012 erano in cantiere 38 navi per 84.460 “berths” (capacità di carico convenzionale riferita ad una nave che ha due posti letto occupati per ogni cabina) e 16.127 milioni di investimento, un anno dopo la situazione appare  rallentata: 30 navi nel 2010-2013, per 66.680 “berths” e 13.447 milioni di ordini. E oramai le consegne di nuove navi, a partire dal 2013, sono previste al ritmo massimo di una l’anno. E l’occupazione evidentemente ne risente: tra il 2008 e il 2009 cala infatti di oltre 23 mila unità in Europa (da 311 a 296 mila, -4,9% in totale), con una perdita specifica del 13% concentrata proprio nei cantieri. E le perdite, paese per paese, fanno ancora più impressione:  in un solo anno -10.000 lavoratori in Germania, -3.000 in Francia, – 1.000 in Italia. E il 2010 doveva ancora arrivare… 

Ma se le previsioni di crescita nella costruzione e nella “ristrutturazione” di navi devono evidentemente essere riviste al ribasso, il campanello di allarme non suona solo nei cantieri: c’è infatti il concreto rischio che tutta le filiera ne sia investita. Infatti si parla già apertamente di riduzioni occupazionali nel personale di terra, di necessaria crescita nella produttività del lavoro, di declino nell’occupazione implicita e nei moltiplicatori di reddito.

E certamente a questo processo di razionalizzazione dei costi non è estranea l’accresciuta competizione tra Cruise Operators, che in tempi di crisi inizia a toccare sensibilmente i prezzi finali, e con essi la profittabilità.

Allo stesso modo non può essere tralasciato il nuovo peso che sembra assumere l’area del Mediterraneo di Sud-Est, a partire dalla Grecia, che con quasi 5 milioni di transiti si aggiudica il primato nazionale nel 2009. Ma si tratta di passaggi “leggeri”, se è vero che mediamente “lasciano” in Grecia non più di 120 euro a testa. E a Malta non va molto meglio, con 149 euro, e anche a Cipro si toccano appena  217 euro.  E ciò mentre all’Italia ogni crocierista “frutta” nel complesso 874 euro, alla Francia 626.

Al contempo non è difficile osservare come l’industria stia puntando in quella direzione: i nuovi prodotti riguardano Egitto e Terra Santa, e Mar Rosso, ed è del tutto chiaro che la terra si vedrà dal mare: “un Mar Rosso inedito, che si scopre godendo per tutto il tempo della propria cabina a bordo, senza il disagio di cambiare albergo, di fare e disfar valige continuamente”.[1]

L’industria delle crociere ha finora governato con mano salda il proprio percorso di crescita: stimolando una domanda attenta e ben disposta alle innovazioni, chiedendo ed ottenendo investimenti nelle infrastrutture portuali e viarie, costruendo, il più delle volte sotto le proprie insegne, un indotto fatto di stazioni marittime, shopping center, transfer e noleggi. In altri termini, ha creato e gestito una filiera di alto valore, riuscendo a massimizzare i propri profitti.

Ma ora sono diversi i segnali di controtendenza, dalla cantieristica all’impatto locale e sui sistemi di ospitalità: basti pensare che, sul totale dei posti di lavoro creati in Europa nel  2009, solo il 4,6% sono riferibili all’ospitalità in senso stretto.

Per il nostro Paese e per tutto il Mediterraneo la crocieristica è una grande risorsa di promozione e di occupazione: bisogna però sforzarsi per accrescerne le ricadute sui sistemi produttivi nazionali e sui sistemi turistici locali, a fronte degli investimenti non certo esigui che essa richiede.