L’aviazione civile e le compagnie aeree hanno già fatto il loro dovere nei confronti della liberalizzazione del mercato, ora per favore occupiamoci di altri problemi e di altri soggetti che vivono di “rendita”.

Nella capitale belga qualcuno deve nutrire una grande passione per gli aerei. L’industria dell’aviazione civile è stata una delle prime industrie a venir deregolata tanti anni fa dalle direttive europee, ma oggi giunti nell’anno 2007 di liberalizzare le ferrovie non se ne parla proprio; l’aviazione civile è stata l’artefice del lancio della formula low cost, ma le bollette del gas e della luce strabordano di tasse e sovrattasse sull’importo base consumato e, anche in questo caso, di scelta dei concorrenti non vi è ancora traccia alcuna; le compagnie aeree si sono moltiplicate tanto che oggi molti si imbarcano su un aereo sapendo poco o nulla sul vettore che li ospita a bordo, ma per taluni aeroporti ancora si discute sulla liberalizzazione dell’handling. E così potremmo continuare a lungo per mostrare le attenzioni privilegiate che il settore dell’aviazione civile ha avuto rispetto invece a tanti, troppi, altri settori ove i consumatori ancora non hanno scelta e trasparenza. Ed ora proseguendo su questo filone, a Bruxelles annunciano che nuovi, grandi risparmi si preannunciano all’orizzonte per i viaggiatori aerei.

È di questi giorni infatti la notizia diramata dalla UE secondo la quale l’accordo con gli Stati Uniti sui “cieli aperti” farà risparmiare in un quinquennio una cifra stimata fra i 6,4 e i 12 miliardi di euro sul costo dei biglietti aerei e la creazione di 80 mila nuovi posti di lavoro. Cifre esorbitanti di cui  nessuno in seguito potrà  mai appurare le veridicità.  Finora possiamo dire che a fronte di una continua impennata del numero passeggeri trasportati, i posti di lavoro “regolari” presso le compagnie aeree sono diminuiti e non certo aumentati.

Evidentemente a Bruxelles ritengono che la quotidiana vita dei cittadini europei sia scandita dalla preoccupazione per l’eccessivo costo del viaggio aereo, mentre problemi come quello di un deposito bancario che alla fine dell’anno anziché fruttarti qualche euro di interesse, va assottigliandosi progressivamente per le onnipresenti “spese gestione conto” poco importa; così come  poco importa che una bolletta del gas, ove appare una tariffa di consumo di 90 euro,  lieviti a 150 euro a causa di contributi sociali, imposta consumo, addizionali e Iva. Da annotare, su quest’ultimo aspetto circa la trasparenza tariffaria, che recentemente Bruxelles è intervenuta per richiedere, come è ovvio, più trasparenza sulle tariffe aeree…

E cosa dire poi delle ferrovie che continuano ad aumentare i prezzi dei biglietti agendo in clima di monopolio, o del prezzo della benzina che sale quando aumenta il costo del barile, ma non diminuisce quando il costo del barile cala? Anche in questo caso che fretta c’è? Questi aspetti e settori possono attendere, meglio continuare a preoccuparsi del costo del biglietto aereo, argomento sul quale si accentra da sempre una attenzione morbosa e costante.
Sugli open skies avevamo avuto modo di intervenire nel numero di Gennaio 2005 di questa testata. In quel periodo gli Stati Uniti avevano rifiutato di aderire alle pratiche suggerite dalla UE e le trattative si erano decisamente arenate. Noi da parte nostra avanzavamo non pochi dubbi sulla politica comunitaria:

“Non si può a nostro parere fingere di ignorare l’esposizione altrui nell’accettare l’impostazione comunitaria. Il problema non è circoscritto ai soli Stati Uniti, ma a qualsivoglia Stato che voglia siglare accordi aerei con uno Stato membro UE.  In un bilaterale ad esempio stipulato fra l’Italia e la Colombia secondo i dettami UE, non va specificata alcuna aerolinea italiana bensì la dizione “UE airline”; pertanto con un simile accordo una Iberia, una Klm, una Lufthansa potrebbero istituire servizi dall’Italia verso la Colombia in aggiunta ai servizi che ciascuna di queste compagnie avrebbero già potuto istituire dai loro hub. Allo stato attuale, con ogni nazione europea che dispone di un suo vettore di bandiera perfettamente operativo ed autonomo, la richiesta UE non sembra affatto appropriata, dando piuttosto l’impressione di essere in anticipo sui tempi. Un domani, quando si sarà formato un singolo vettore comunitario che congloberà più vettori di bandiera, la richiesta potrà apparire decisamente più plausibile”.

Era essenziale ricordare questi punti per dar modo ai lettori di capire quali fossero i problemi che avevano causato lo stallo delle trattative. Quest’ultime, mai interrotte, ora potrebbero trovare un prossimo sbocco a seguito degli ultimi sviluppi maturati.
Il 22 marzo scorso a Bruxelles è stato raggiunto un accordo con gli Stati Uniti (open skies plus) in base al quale le compagnie aeree comunitarie, a prescindere dalla loro nazionalità, possono istituire collegamenti da qualsiasi città europea verso qualsiasi destinazione statunitense. Quindi una Alitalia potrebbe istituire servizi tra Madrid e Miami, una Lufthansa potrebbe volare da Copenhagen a Chicago, l’Air France da Roma a San Francisco, eccetera, eccetera.
Contemporaneamente a questa rivoluzione, i singoli accordi bilaterali siglati tra uno Stato UE e gli USA vengono a decadere per essere sostituiti da un unico accordo bilaterale Usa-Ue.
Nuovamente, tornando ai precedenti nostri appunti, annotiamo come di un tale agreement né gli utenti, né i singoli Stati ravvedessero alcuna urgenza pratica. E tale considerazione rimane valida anche se dobbiamo riconoscere che con la politica dei singoli bilaterali vi erano vettori che ne traevano particolare vantaggio, in primissimo luogo leggasi  Londra, British Airways, aeroporto di Heathrow.
Non casualmente la British Airways è al primo posto nella graduatoria sul numero posti offerti sul segmento Europa-Usa, graduatoria che include sia compagnie Usa, sia quelle europee.

I PUNTI ESSENZIALI DELL’ACCORDO SOTTOSCRITTO IL 22 MARZO 2007

  • Slittamento dal 28 ottobre 2007 al 30 marzo 2008, dell’entrata in vigore dell’intesa;
  • Possibilità per i governi europei di recedere dall’accordo, se entro il 2010 non verranno constatati progressi soddisfacenti con le autorità statunitensi;
  • Le compagnie europee potranno volare da ogni città europea verso gli Stati Uniti, ma non servire altre città americane; le compagnie Usa invece potranno volare da una città all’altra all’interno della UE;
  • Vincolo del 25 per cento sul diritto di voto nelle partecipazioni europee di vettori USA;
  • I vettori Usa possono arrivare a controllare fino al 49% un vettore europeo.

Ora, se andiamo ad analizzare in dettaglio la geografia dei collegamenti aerei fra Europa e Usa, potremmo distinguere tre specifiche alternative, che fra l’altro rimangono valide per qualsiasi altro mercato.

  • La compagnia nazionale non ha problemi a istituire tanti voli quanti ne richieda il mercato: è il caso di British Airways, di Lufthansa o di Air France che hanno voli plurigiornalieri dalle loro basi di armamento su più destinazioni Usa;
  • La compagnia nazionale non ritiene opportuno istituire collegamenti, o aumentare l’offerta, in quanto la consistenza del traffico non lo richiede;
  • La compagnia nazionale è debole, e pur necessitando di collegamenti, non li può istituire in quanto per lei economicamente non redditizi.

Come era scontato, le maggiori resistenze alla firma del nuovo open skies plus sono venute proprio dalla British Airways che oggi trae buona parte del suo revenue dal traffico transatlantico.
Per ovviare ai problemi che sarebbero derivati alla British Airways dalla stipula dell’accordo, il governo britannico ha fornito  il suo consenso in cambio dello slittamento dell’entrata in vigore dell’accordo stesso.  In tal senso Heathrow entrerebbe nei nuovi schemi  solo a partire da maggio 2008 quando verrà inaugurato il  terminal cinque.
Certamente è evidente il tentativo di proteggere “la rendita” di British Airways quale maggiore attore transatlantico europeo, ma anche su questo aspetto val la pena spendere alcune considerazioni aggiuntive.
Ogni compagnia aerea, nel corso del tempo, si è specializzata e si è consolidata su specifici segmenti, tipico esempio è quello di Iberia dal suo hub di Madrid verso il Centro e Sud America, o appunto la piazza di Londra divenuta, grazie alla BA, punto di snodo a livello continentale per le rotte transatlantiche. Se un vettore, grazie ai suoi mirati investimenti e scelte marketing, è assurto a un ruolo primario su un determinato scalo su specifiche direttrici, non vediamo come ciò possa costituire motivo di scandalo o critiche; come d’altra parte non si può certo dire che la saturazione di Heathrow  sia un espediente creato dalla British Airways per evitare l’entrata in scena di nuovi concorrenti.

Con il nuovo accordo, su Londra come pure su ogni altro scalo comunitario, l’eventuale “monopolio” verrà rotto e chiunque potrà andare in casa altrui a lanciare rotte per l’America. Già immaginiamo la soddisfazione degli scali “secondari” ognuno dei quali si metterà alla ricerca di qualche vettore che gli istituisca la linea per gli States.

Ci auguriamo che vi sia anche qualcuno che inizi a chiedersi quanto “il sistema” potrà reggere questa assurda politica di espansione dei servizi aerei, voluta non per supplire a linee effettivamente carenti, ma solo per permettere a più concorrenti di entrare nei collegamenti, abbassare le rispettive tariffe per la esclusiva soddisfazione del passeggero. L’ambiente inizia a dar sintomi di rigetto verso un tal modo di operare, Ciampino insegna.

Ed ora lasciamo il Regno Unito per parlare invece di problemi che più da vicino ci riguardano.
Nei giorni che hanno preceduto la firma dell’accordo, il nostro Ministro dei Trasporti ha espresso perplessità su di esso, avendo ben presente la situazione Alitalia.  A parte la privatizzazione in corso, infatti, l’Alitalia nelle tre fattispecie da noi elencate, rientra sotto la terza, ovvero fa parte di quei vettori che hanno rinunciato a istituire linee intercontinentali soprattutto a causa della impossibilità di reggere i costi di gestione.
In queste condizioni, un accordo che permette a qualunque vettore UE di istituire linee per gli Usa da ogni scalo italiano e, ovviamente da Roma e da Milano, si ha ragione di credere che indebolirebbe ulteriormente la nostra compagnia.  L’asse Roma-Londra aveva quindi motivi differenti, ma convergenti per chiedere un rinvio. E da questo punto di vista l’obiettivo si deve intendere raggiunto.

A fronte di questi dubbi tuttavia ci sia permesso rammentare l’altro timore che pure aleggiava in Europa, e in Italia in particolare, quando si trattò di varare il cabotaggio, la possibilità cioè per un vettore comunitario di istituire collegamenti domestici in casa altrui: di fatto nessun vettore major volle fare il passo e le compagnie nazionali, tranne sporadiche eccezioni, sono rimaste le sole a gestire i rispettivi servizi domestici.

Questa storia che una Air France andrebbe a istituire una rotta Bucarest-New York o similari, non ci trova affatto entusiasti, in primo luogo per una questione di contingentamento voli richiesto da problemi di environment, e, secondariamente, perché se i  vettori vogliono realmente cimentarsi in questi esercizi in casa altrui, con lo strumento del  code-sharing possono agevolmente farlo anche senza ricorrere alle ultime novità provenienti da Bruxelles. Quindi non ci meraviglieremmo affatto se fra qualche anno, tirando le somme, anche questi nuovi collegamenti di cui tanto si parla fra Usa e Europa si rivelassero un flop. Pensando comunque alle lunghe ed estenuanti trattative dell’accordo, nuovamente – come cittadini europei – vorremmo che le fatiche di Bruxelles fossero rivolte verso ben altre, più gravi, vessazioni cui l’utente continentale è oggetto. L’aviazione civile e le compagnie aeree hanno già fatto il loro dovere nei confronti della liberalizzazione del mercato, ora per favore occupiamoci di altri problemi e di altri soggetti che vivono di “rendita”.

Antonio Bordoni