Alitalia e AirOne sia pur unite  non sono riuscite a formare quella massa critica che solitamente le unioni riescono a dare, e cosa ancor più preoccupante dubitiamo che ciò potrà mai avvenire. Unirsi per esprimere sul mercato nulla di nuovo non ha senso e sotto questa ottica la fusione fra i due maggiori vettori tricolori assomiglia sempre più a un ripiego, a un tirare a campare fino a che qualcosa di nuovo non venga a svegliare il torpore che distingue questi primi tempi di avvio della nuova Alitalia.

Quando il 13 agosto scorso la cilena LAN e la brasiliana TAM hanno annunciato la loro fusione

le agenzie di stampa brulicavano di notizie tendenti a evidenziare il nuovo gigante dei cieli latini che si andava a formare che dovrebbe assurgere al ruolo della più grande compagnia aerea del Sud America: ecco è così che di solito funzionano le unioni, ci si mette insieme per dare qualcosa di più all’utente.

Nel caso dell’unione  Alitalia-AirOne le notizie che trapelano sono tutte improntate a un diffuso pessimismo. “La partita vera per Alitalia è nel 2011, se raggiungeremo certi risultati la compagnia si salva, altrimenti bisognerà trovare delle soluzioni di finanziamento. Perché Alitalia avrà bisogno di soldi”. Era la prima volta che il Presidente della compagnia Roberto Colaninno ammetteva le difficoltà incontrate nel rilancio della società. Eravamo al giugno scorso al Festival dell’economia di Trento.

Di come sta andando l’aviazione civile crediamo tutti ne siano coscienti. Compagnie statunitensi una volta padrone dei cieli che si vanno sempre più consolidando fra loro; compagnie europee raggruppate sotto l’egida dei tre mega-hub ai quali aderiscono anche i maggiori vettori asiatici;  compagnie del Medio Oriente che vanno assumendo connotati globali con mega ordini per l’A380 le quali fra l’altro non vogliono sentir parlare di alleanze. Il tutto condito da un nutrito stuolo di vettori low cost ormai presenti in ogni continente.

Premesso che le alleanze non salvano una compagnia dal rischio di chiusura e l’ultimo esempio in ordine di tempo ci viene dato dalle traversie di Mexicana che nel 2000 aveva aderito a Star Alliance per emigrare poi in Oneworld nel 2009 e che oggi è sotto la protezione della legge sulla bancarotta, appare evidente che ormai una aerolinea per poter sopravvivere deve essere in grado di offrire dal suo bacino di origine il  traffico di cui esso necessita. Solitamente questo compito viene individuato e svolto dal piano industriale.

Il Paese Italia, i suoi due maggiori aeroporti intercontinentali, avevano (e hanno) bisogno di collegamenti a lungo raggio oggi abbondantemente controllati e monopolizzati dalle compagnie straniere. E si badi bene non si tratta solo di una questione di italianità, quanto piuttosto di offrire all’utente la comodità dei collegamenti diretti invece di instradamenti con cambio di aereo su scali stranieri come oggi, e da tempo, invece avviene.

E’ davvero incredibile annotare come in Italia si sia passati da una stretta politica dei bilaterali che prevedeva tante frequenze al vettore straniero quante ne aveva il vettore italiano, al più completo lassismo con vettori stranieri che sottraggono a piene mani il traffico intercontinentale instradandolo sulle loro basi operative.

Quando la nuova Alitalia è nata essa non ha mirato a ridare all’Italia i collegamenti internazionali di cui i suoi cittadini, e la variegata comunità extracomunitaria abbisognano, ma ha puntato su un mix di corto-medio raggio con una manciata di servizi long haul anch’essa condendo il tutto con un tentativo di reinserimento sul mercato low cost.

Al di la del numero passeggeri  trasportati che può pure aumentare ma che di per se stesso non è affatto indice di salute finanziaria, il margine operativo della compagnia è peggiorato rispetto al 2007 e così anche il margine operativo per passeggero.

In queste condizioni, ma soprattutto tenendo conto della mancanza di un ruolo per poter continuare da sola, l’Alitalia avrà ben presto bisogno di nuovo capitale e se questo non verrà dai soci italiani verrà dal suo socio di maggioranza, l’Air France che attualmente detiene il 25 per cento e a quel punto i giochi saranno fatti e al posto del verde, la bandiera tricolore sugli aerei prenderà il colore blu.

Ora sia ben chiaro che non è affatto scandaloso con i tempi che corrono che un vettore voglia unire le proprie forze con altri, si consideri ad esempio quanto deciso da Klm nel voler confluire su Parigi, ma il vero problema è con quale ruolo vi si entra a far parte. Se le unioni avvengono quando le forze sono paritarie il ruolo che si assume non è di terra di conquista ma di socio con pari diritti, viceversa se si chiede di join the club quando le casse boccheggiano con ogni probabilità il ruolo a cui si potrà aspirare sarà quello di socio di serie b. Il che non può non dispiacere perché il mercato Italia non era, e non è, affatto un mercato di serie cadetta, chiedetelo a Ryanair.

Antonio Bordoni