Di Alessandro Valentini.

Occhi tanto grandi e sguardi tanto profondi che sembrano parlare, raccontare di un popolo fiero e orgoglioso della propria storia millenaria, e rivendicare una ricchezza interiore che pare compensare l’estrema povertà materiale che c’è tutto intorno.

Una terra avara di quasi tutto, ma certo non della straordinaria varietà di paesaggi mozzafiato che ostenta, e che la natura sembra aver dipinto quasi a dimostrare che lei qui non è poi così ostile. Chi viaggia per l’Etiopia sa che questi sono alcuni degli ingredienti più micidiali nel far innamorare un forestiero di questa gente e di queste terre.

Tra gli aridi e impervi monti della regione di Wollo, nella parte centro settentrionale del paese, a circa 640 km dalla capitale Addis Abeba, arroccata a 2600 metri di altezza su un impervio costone sul cui sfondo si stagliano le alte, maestose e spigolose cime del Monte Abune Yosef, una piccola cittadina che a prima vista non sembra niente più che un grande villaggio di capanne di paglia e fango e di lamiere come tanti altri, racchiude in sé tutta l’essenza di ciò che un visitatore può trovare in Etiopia.

E’ Lalibela, l’antica Roha, una delle capitali del regno della dinastia Zagwe, che ereditò il dominio millenario che su queste terre esercitò il potente e florido regno di Axum, che secondo i sacri testi etiopi fu governato dalla discendenza regale dell’unione tra la Regina di Saba e il Re Salomone.

Quando vi si arriva però, del passato glorioso di questi luoghi non si può aver coscienza e percezione, anche perché le meraviglie custodite tra le capanne e gli eucalipti sono tali proprio per la loro invisibilità, e così è solo lo splendido paesaggio di pronunciate colline che si inseguono a perdita d’occhio a carpire l’attenzione del visitatore che si trova a salire gli ultimi km della panoramica e irta strada che bisogna percorrere per raggiungere Lalibela.

Anche qui, anche questa strada, come tutte le altre d’Etiopia e forse d’Africa, man mano che si avvicina al principale centro abitato della zona si popola sempre più di un via vai di gente che ogni giorno si reca a piedi verso i vari mercati cittadini, col proprio carico di bestiame o di frutti dei risicati raccolti che questa terra centellina, provenendo chissà da quale punto lontano di quel rarefatto e impervio paesaggio che si domina da Lalibela. Se non fosse per quella lingua d’asfalto che ci guida verso la nostra meta e per i mezzi che vi circolano si potrebbe dire che tutto quello che stiamo osservando dai finestrini dei pulmini è assolutamente identico a 100, 400, 1000 o più anni fa.

Entrando in paese comunque alcuni indizi testimoniano inequivocabilmente la presenza di qualcosa di speciale: mi colpisce l’elevato numero di alberghi, apparentemente di discrete condizioni, le tante insegne e cartelli dell’Unione Europea e dell’Unesco, e soprattutto l’indifferenza con cui i locali che camminano per strada incrociano con lo sguardo i nostri pulmini, segno che diversamente da altre aree altrettanto povere e isolate qui i locali sono abituati alla presenza dei turisti.

Il timore di perdere del tempo prezioso in quest’unica giornata che trascorreremo qui è presto fugato dal buon livello di organizzazione del nostro hotel.

Dopo una rapida accettazione ci viene offerta la possibilità di farci accompagnare da una guida locale, e così, dopo un pranzo a base di carne e riso incontriamo Rafael, un ragazzo del luogo dall’aria sveglia, con cui concordiamo, praticamente senza negoziazione, un prezzo di 300 birr a testa (12 euro, un po’ caro visto il livello generale dei prezzi) per accompagnarci a visitare le segrete meraviglie per cui siamo venuti fino a qui.

Salendo verso il centro della città la guida comincia a spiegarci che Lalibela è la seconda città più sacra dell’Etiopia dopo Axum, dove gli etiopi credono sia tuttora custodita l’Arca dell’Alleanza. Quindi è anche per questo che in questi giorni (ultimi di dicembre) la città comincia a tingersi di bianco, ovvero del colore degli shamma, i tradizionali abiti di cotone dei fedeli e dei pellegrini che accorrono qui da ogni parte d’ Etiopia – talvolta intraprendendo lunghissimi pellegrinaggi a piedi lunghi anche diversi mesi – in occasione delle principali festività ortodosse e copte dell’anno: il natale ortodosso, che cade il 7 gennaio, e il Timkat, l’epifania etiope che ricorre il 19 gennaio.

Ad un certo punto Rafael quasi si ferma e ci chiede: “Ma voi la conoscete la leggenda del re Lalibela?”Il più conosciuto e illustre esponente della dinastia Zagwe, che dominò su queste terre nei secoli XII e XIII, successivi alla distruzione e dissoluzione del Regno di Axum, fu il re che aveva per nome Gebre Mesqel Lalibela.

Per la verità Lalibela, che letteralmente in lingua agaw significa “la cui sovranità è riconosciuta dalle api” è un soprannome che gli diede la madre, quando lo trovò nella culla circondato da uno sciame d’api, che gli volavano intorno senza però pungerlo.

Dato che secondo un’antica credenza etiope gli animali preannunciano l’avvento di personaggi importanti, la madre interpretò questo episodio come la premonizione di un fulgido futuro per suo figlio.

Che però era secondogenito: il maggiore, Harbay, legittimo erede al trono, questa cosa proprio non la poté mandare giù, e col tempo cominciò a temere sempre più per il suo trono, al punto che arrivò a tentare di uccidere più volte il fratello minore, ma senza mai riuscirci.

La volta che ci si avvicinò di più fu quando gli somministrò una pozione avvelenata, che lo gettò in un sonno mortale lungo tre giorni: in questo lasso di tempo, sempre secondo la leggenda, angeli trasportarono Lalibela in paradiso, dove Dio gli ordinò di costruire a Roha una nuova Gerusalemme fatta di “chiese come non se ne erano mai viste al mondo”.

Dopodiché di fronte al miracolo del risveglio, Harbay non poté che abdicare a favore del fratellino, il quale non appena salito al trono cominciò ad organizzare i lavori di edificazione del nuovo imponente complesso sacro.

E così in pochi anni a Roha sorse un complesso unico al mondo, costituito da 11 chiese rupestri, veri e propri monoliti ricavati e scavate a mano e con strumenti rudimentali – ma con mirabile arte e know-how – nella rossa roccia tufacea su cui sorge la città; le chiese sono state tutte collegate tra loro da suggestivi corridoi tagliati nella pietra e da cunicoli sotterranei, e sono raggruppate in due blocchi divisi da un piccolo fiume che scorre in una tagliata ricavata nel terreno, che rappresenta il Giordano.

Grazie alla realizzazione di questa maestosa opera la figura del Re rimase per sempre legata alla sua città, che presto adottò il suo nome.

Fu un’opera gigantesca: la nostra guida ci racconta che gli storici e gli archeologi, facendo corrispondere per convenzione il tempo necessario alla realizzazione della nuova Gerusalemme ai 24 anni del regno di Lalibela, hanno stimato in alcune decine di migliaia di uomini la forza lavoro che in quel lasso di tempo dovette scolpire a mani nude o poco più le 11 chiese e l’intricato labirinto di gallerie e corridoi che le collega.

Ciò alimentò un’altra leggenda, secondo cui ad aiutare il Re Lalibela e la sua moltitudine di operai furono gli angeli, che di notte continuavano il lavoro diurno degli uomini.

In realtà è il contesto storico della costruzione delle chiese, erette in teoria tra il 1197 e il 1221, a fornire elementi utili a comprendere il senso di questa impresa, impensabile da poter realizzare con la tecnologia dell’epoca; siamo negli anni immediatamente successivi alla conquista musulmana di Gerusalemme (1187) ad opera del Saladino.

La città Santa non era mai stata così lontana, d’altronde immensi territori a dominazione musulmana già da tempo l’avevano resa inarrivabile per i cristiani di quella parte di Africa.

In questa situazione, di fronte ad una fervente comunità religiosa come quella etiope, si palesò ben presto la necessità di costruire un nuovo centro di culto e di pellegrinaggio, a portata di milioni di fedeli rimasti orfani della loro principale sacra meta.

I frequenti riferimenti biblici che si ritrovano nelle chiese di Lalibela, nei loro nomi e nelle infrastrutture che le collegano indicano chiaramente anche la funzione educativa del luogo sacro che si volle edificare.

Roha di fatto divenne la nuova città santa etiope: un suggestivo e mistico luogo di preghiera, una nuova e più accessibile meta di pellegrinaggi, un luogo perfetto per il proselitismo e l’insegnamento dei dogmi della religione, grazie alla diffusa simbologia e ai continui richiami agli episodi biblici.

Ma il tutto, in un’epoca di violente contrapposizioni religiose, doveva essere il più possibile al riparo da occhi indiscreti, e così le chiese vennero scavate all’interno della roccia, col risultato che nonostante sorgessero in una posizione dominante su un’ampia vallata, fossero praticamente invisibili, mimetizzate com’erano tra le aride e monumentali asperità delle montagne della zona.

Purtroppo al momento il luogo dove esse sorgono passa tutt’altro che inosservato: percorrendo una strada tagliata nella roccia che sale verso il primo blocco di chiese ad un certo punto non si può fare a meno di notare delle moderne strutture, 4 enormi tetti antipioggia poggianti su piloni di cemento e acciaio, che ci viene spiegato sono stati posti sopra cinque delle undici chiese rupestri per un’iniziativa controversa dell’Unesco e della Commissione Europea, finalizzata alla preservazione delle chiese dai danneggiamenti degli agenti atmosferici.

Pare che si tratti di una soluzione temporanea, e tra poco potrebbero essere rimossi, e sinceramente chiunque sia stato a Lalibela se lo augura: sulle antiche chiese rupestri piove lo stesso, e quindi il gioca non sembra proprio valere la candela.

Ma comunque scalpitiamo per ammirare da ogni prospettiva la prima chiesa che già intravediamo; tuttavia la guida ci spiega che il nostro tour deve cominciare con una rapida visita al vicino museo, di recente apertura e che, seppure molto essenziale, custodisce reperti effettivamente interessanti, quasi tutti risalenti al XII secolo: antichi drappeggi, testi sacri, croci, strumenti per la musica liturgica, ed anche un tabot molto antico, ovvero una delle sacre copie in legno o in pietra delle Tavole sacre (quelle con i dieci comandamenti) che sarebbero contenute nell’Arca dell’Alleanza.

Ogni altare di ogni chiesa d’Etiopia custodisce un tabot, che in occasione della festività del Timkat viene solennemente portato in processione.

Così la visita al museo ci rinfresca la memoria, e ci permette di integrare con qualche nozione in più quella prima infarinatura che Rafael, col suo invidiabile inglese, ci aveva dato.

Arriviamo finalmente di fronte a Biet Medhame Alem (La Casa del Redentore del Mondo) la prima chiesa rupestre che visitiamo, e che subito ci colpisce per la sue dimensioni – lunga più di 30 metri e larga più di 20 è la più grande di tutte – nonché per la cura dei dettagli: a pianta rettangolare, appare simile ad un tempio greco, anche per le imponenti colonne a base quadrata che la circondano.

Come molte delle chiese monolitiche di Lalibela, anche questa ha la particolarità di apparire incassata all’interno di uno scavo ricavato dalla montagna. Le pareti della chiesa, all’interno del colonnato, sono intarsiate di piccole finestre, che forse sarebbe più appropriato chiamare fenditure, che richiamano simbologie di culture antichissime, come croci greche e svastiche.

Scopriamo subito che per fortuna la presenza delle moderne tettoie annacqua solo in piccola parte l’aspetto e l’atmosfera che questo luogo ha avuto nei secoli: lo spettacolo di ingegno e arte in cui siamo immersi ha il sopravvento, tanto che per un attimo si riescono a cogliere la meraviglia e lo stupore che dovevano provare i pellegrini che arrivavano fin qui per la prima volta, e chissà da dove.

Prima di entrare all’interno di questo pezzo di montagna perfettamente modellato, per rispetto del luogo sacro che stiamo per visitare dobbiamo toglierci le scarpe, che un anziano locale per pochi birr proteggerà dalle mire di eventuali ladruncoli.

Anche dall’interno si comprende la grandezza delle opere che stiamo ammirando, e l’unicità del modo con cui esse sono state realizzate.

Prima si è scavato attorno ad un blocco di roccia, che poi è stato scolpito e letteralmente svuotato, ritagliando così gli ingressi, le pareti, le arcate, le colonne, i soffitti e i pavimenti.

Chiunque qui può cogliere l’atmosfera austera e sacra che qui regna: le poche e piccole aperture non intaccano una semioscurità dominante, l’aria è fresca e umida – molto apprezzabile – le pareti di roccia sono disadorne, e il ruvido tufo nudo, privato della luce del sole, ha perso un po’ di colore e lucentezza.

Il pavimento è coperto di tappeti senza soluzione di continuità, mentre solo qualche drappo e icona colora l’altare.

Solo il silenzio e l’incenso possono in qualche modo ricordare le chiese che avevamo conosciuto sino ad oggi.

I turisti si mischiano rispettosamente ai monaci e ai fedeli, che Rafael ci rassicura non essere affatto disturbati dalla nostra presenza: ci spiega che per loro se noi siamo lì è solo un bene, perché è un bene che si diffonda la conoscenza di questi luoghi sacri tra i più importanti per la Chiesa copta etiope.

A Lalibela c’è una sola chiesa rupestre affrescata, quella dedicata a Maria, che capiamo presto perché sia una delle più amate dai pellegrini: qui la cura dei dettagli è stupefacente.

L’aspetto della facciata è molto accattivante, per via di un portico sporgente; all’interno oltre ai colori vivi degli affreschi risaltano agli occhi le minuziose decorazioni a intaglio sui capitelli e sulle arcate.

C’è anche un palchetto laterale, che pare appartenesse alla famiglia reale, che prediligeva questo luogo sacro per la messa quotidiana.

Quel che ci sorprende è che ognuna delle chiese rupestri è diversa e unica. Biet Golgota e Biet Mika’el, raggiungibili attraverso un suggestivo e angusto corridoio e tra loro collegate, custodiscono molti tesori – come la presunta tomba del re che volle tutto questo, e alcune sue reliquie – oltre ad essere abbellite da diversi pregevoli rilievi figurati che sono tra i più antichi della cristianità etiope.

Biet Abba Libanos, scavata orizzontalmente nella roccia, è quella più simile ad una grotta, mentre Biet Amanuel, con le sue bande orizzontali e le sue rientranze e sporgenze richiama esplicitamente lo stile axumita.

Ma sono le ultime due a lasciarci a bocca aperta: al complesso di Biet Gabriel-Rufa’el si accede dall’alto tramite un ponticello di tronchi di legno sospeso dieci metri sopra uno stretto cortile, più simile ad un fossato, dominato da una maestosa facciata.

Qui, al piano più elevato di questa complicata struttura, che forse ha una storia ancora più antica di quelle delle altre chiese di Lalibela, alcuni monaci pregano, mentre, affacciati sul cortile, altri due con una posa e un atteggiamento a noi del tutto familiari conversano al telefonino. Una sorta di anacronismo che evidentemente è tale solo nelle nostre teste.

Incamminandoci verso l’ultima chiesa rupestre che ci rimane da ammirare, che poi è la più famosa di Lalibela, la nostra guida, non contenta di tutti i labirintici percorsi, di tutte le ripide e insidiosissime scalette, di tutti gli angusti e lunghi cunicoli in cui ci ha fatto passare, decide di farci entrare in un piccolo e stretto cunicolo sotterraneo scavato nella roccia e completamente al buio, dove ci inoltriamo per alcune decine di metri, ognuno con le mani sulla schiena di quello davanti.

Biet Giyorgis, la chiesa dedicata a San Giorgio, si distingue già soltanto per l’ubicazione: è in posizione isolata rispetto ai due blocchi in cui sono raggruppate tutte le altre, così per raggiungerla per qualche minuto dobbiamo tornare sulle strade della città “moderna”. Incrociamo così un folto gruppo di bambini che escono da scuola, ci vengono incontro e ci chiedono soldi, ma Rafael, più per il loro bene più che per le nostre tasche, ci consiglia di non dargli retta, e ci suggerisce piuttosto di offrire ai più piccoli caramelle, e a quelli un po’ più grandicelli penne e matite. Coi soldi possono fare solo qualcosa di sbagliato: marinare la scuola, bere, assumere stupefacenti.

Arriviamo sopra la Chiesa dedicata a San Giorgio, molto venerato da queste parti, ma fino all’ultimo non riusciamo a scorgerla, indistinguibile com’è fino a che non si è quasi sull’orlo dello scavo da cui è stata ricavata. Poi il monolito appare in tutto il suo splendore: scavato su di un promontorio che domina tutta la vallata sottostante, in un affossamento ben squadrato cui si accede tramite un unico corridoio scavato nella roccia, il blocco scolpito ammalia per la simmetria della pianta a croce greca e per quello stile axumita che anche qui decisamente riaffiora.

La guida ci racconta la leggenda secondo cui San Giorgio in persona, a cavallo e con l’armatura, scese dal cielo per riprendere il Re Lalibela, il quale non aveva previsto di costruire una chiesa in suo onore. Il Re, costernato, promise che per lui avrebbe costruito la più bella di tutte le chiese di Roha, e così fu, anche perché, come testimoniano ancora le orme degli zoccoli del cavallo ben impresse sulle pareti attorno al monolite, il santo controllò di persona e da vicino tutto lo svolgimento dei lavori.

E’ attorno a questa splendida chiesetta, simbolo di tutte le chiese di Lalibela, che si svolgono alcuni dei più tipici rituali del Timkat: durante le celebrazioni, che commemorano il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano, in un grande cerchio attorno al monolite vengono portate in processione i tabot, con canti e balli al ritmo dei tamburi, dei corni, e dei sistri agitati ritmicamente dai monaci, tra i colori delle decine di parasoli in velluto ricamati in oro, dei paramenti colorati, delle vesti di broccato dei sacerdoti, sullo sfondo candido delle shamma.

Con questa ultima suggestione che Rafael ci aiuta a fare nostra, abbiamo finalmente tutti gli elementi per comprendere cosa significhi Lalibela per un fedele etiope, e contemporaneamente ci chiediamo come sia possibile che questi luoghi da noi siano ancora così poco conosciuti. Ma forse il turismo di massa mal si coniugherebbe alla realtà di Lalibela, unica e fragile come il tufo rossastro che si sgretola per l’usura del tempo e per l’azione degli agenti atmosferici.

Tornando verso il nostro albergo, prima di congedarci da Rafael, sento l’esigenza di interagire con lui al di fuori del gioco dei ruoli turista-guida, prima che svanisca la possibilità di fare due chiacchiere con un mio coetaneo nato in questa parte di mondo così lontana dalla mia. Lontana in tutti i sensi. Gli chiedo come è arrivato a fare questo lavoro, e lui in tutta risposta mi racconta una storia incredibile. Un paio di anni fa, dopo gli studi, è andato ad insegnare ai bambini in una scuola nella poverissima regione di Afar, la desertica depressione del nord-est dell’Etiopia di fronte all’Eritrea.

Qui,dopo pochi mesi di insegnamento, una di quelle caldi notti senza un filo di vento una maledetta zanzara l’ha punto, e così ha contratto la malaria, una malattia inesistente a queste altitudini dove lui è nato e cresciuto, solo e unico ambiente in cui fino ad allora aveva vissuto. Solo, senza soldi e senza la possibilità di curarsi adeguatamente, ha passato sei eterni mesi a rigirarsi su una brandina di una buia capanna, tra le convulsioni e i sudori causati da febbri altissime, sfiorando la morte. Non appena la morsa malarica ha allentato un po’ la presa, sebbene ancora debilitato, Rafael ha deciso di fare l’unica cosa che poteva fare.

Si è incamminato verso Lalibela, verso casa, dove avrebbe ritrovato il supporto e il conforto della sua famiglia. Il viaggio, da quello che ho capito di un paio di centinaia di km, è durato un mese: difatti, con l’eccezione di qualche breve tratto in autostop, Rafael è tornato a casa a piedi, percorrendo prima desolate e sterminate pianure, e attraversando poi monti,gole e valli sempre più pronunciate man mano che si avvicinava a casa.

Tra giorno e notte non aveva preferenze, in quelle terre ogni momento della giornata ha i suoi pro e i suoi contro: il giorno può fare molto, troppo caldo, almeno nelle basse terre dell’Afar; la fresca notte illuminata solo dalla luna e dalle stelle invece può nascondere molte insidie, dai famelici animali ai briganti senza scrupoli. Con un’emozione palpabile Rafael mi racconta gli ultimi momenti di quel viaggio, il cui compimento avrebbe significato la sua salvezza: il profilo di Lalibela che mano a mano che saliva verso la città assumeva la forma che aveva nei suoi ricordi; i suoni familiari del suo dialetto, che di nuovo riusciva a distinguere passando davanti alle prime capanne della città; la più che piacevole sensazione di sentirsi finalmente al sicuro. Mai avrebbe pensato di provare tanto bisogno di tornare a casa, e tanta emozione per la sua terra.

Ora, avendo imparato il mestiere della guida turistica, Rafael si aggira tutti i giorni in quel magico mondo fatto di chiese rocciose, portici, archi, corridoi e gallerie, che conosce come pochi, e dove si sente a casa, visto che lui, qui, da bambino giocava tutti i giorni a nascondino.

Alessandro Valentini