Tale cifra rappresenta una delle richieste più elevate mai avanzate a una società con business online.
La legislazione italiana del 2017 impone alle piattaforme web di agire come sostituti d’imposta, trattenendo il 21% degli affitti incassati dagli host e successivamente versandolo al governo.
La situazione controversa riguarda in particolare le attività non imprenditoriali, cioè coloro per i quali l’affitto degli appartamenti non costituisce la fonte principale di reddito.
O almeno così dovrebbe essere.
Secondo la normativa italiana, gli host professionali sono tenuti a versare direttamente la ritenuta d’acconto, che può corrispondere al 21% della cedolare secca o all’aliquota marginale IRPEF del proprietario, a seconda delle scelte effettuate.
Nel caso degli host non professionali, che costituiscono la maggioranza, è responsabilità di Airbnb trattenere l’imposta e trasferirla successivamente al fisco.
Il gruppo statunitense ha da sempre contestato questa disposizione e nel 2017 ha presentato un ricorso al Tar.
La questione è giunta fino al Consiglio di Stato, che ha coinvolto anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Nel dicembre 2022, la Corte ha stabilito che la legislazione italiana può richiedere alle piattaforme di raccogliere informazioni e dati sulle locazioni effettuate, oltre a implementare la ritenuta direttamente alla fonte, in linea con il regime fiscale nazionale.
Quindi ha sostanzialmente dato torto ad Airbnb.
Ora da attendere le ulteriori mosse del colosso delle vendite online che teoricamente potrebbe richiedere quanto richiesto dal fisco italiano agli host non imprenditoriali, con il rischio di generare una cascata di altre cause.
È chiaro tuttavia che tutti gli interventi sia governativi che fiscali siano rivolti ad una normalizzazione del settore, evitando le zone grigie e facendo emergere le attività svolte in maniera imprenditoriale.