Qualcuno un giorno nel futuro sarà capace, con poche spennellate di parole, di riassumere i cambiamenti che hanno riguardato l’aviazione commerciale di questi nostri tempi; oggi noi pur avendo il vantaggio di vivere in prima persona questi avvenimenti, li subiamo passivamente e non siamo in grado di comprendere appieno quanto che sta accadendo, anzi diciamo pure che siamo completamente frastornati da essi.
E’ strano, ma a pensarci bene tutti i grandi eventi che contraddistinguono la vita degli uomini hanno una medesima caratteristica: addirittura una guerra può essere a posteriori spiegata e capita in poche righe su un libro di storia, mentre coloro che ne vivono le traversie si chiedono increduli, il perché senza riuscire a darsi spiegazioni logiche.
Per quanto riguarda l’aviazione commerciale, tre notizie fra le più recenti apparse sulla stampa di settore serviranno ad introdurci nel vivo dell’argomento:
“Diplomatici danesi dalla business class alle low cost per i loro voli”;
“In Italia è nata oggi l’ennesima compagnia aerea, abbiamo perso il conto di quante sono”;
“Il presidente di Alpi Eagles smentisce qualsiasi interesse per l’acquisizione di Alitalia”.
Tre notizie di cui ci serviremo per approfondire i temi-chiave che hanno contraddistinto i più evidenti mutamenti: le low cost, la nascita di nuovi vettori, la decadenza dei vettori più blasonati.
Per le compagnie che offrono voli a pochi euro, ricordiamo come una volta le tariffe aeree erano intoccabili in quanto governate dal cartello IATA; per i nuovi vettori che ogni giorno appaiono in scena notiamo come anch’esso rappresenti un fenomeno impensabile fino a pochi anni orsono, come lo è d’altra parte la sorte toccata ai grandi nomi che rappresentavano i vettori di bandiera.
Ebbene per partire, osserveremo come sono pochi, davvero pochi i vettori che analizzano le loro operazioni nel modo in cui un qualsivoglia imprenditore commerciale o industriale farebbe per la sua industria. Così, malgrado la materia prima sia abbondante e a disposizione, in quanto passeggeri desiderosi di muoversi e di merci da trasportare ve ne sono in gran quantità, l’industria aerea commerciale non sa valorizzare appieno il valore dei suoi aeromobili, del suo personale ma soprattutto della sua clientela.
La gente oggigiorno va di fretta, non ama perder tempo e una caratteristica che ha sempre negativamente distinto gli aeroporti e le aerolinee erano (e sono tuttora) i troppi fronzoli e formalità che precedevano e accompagnavano il volo. Questa particolarità negativa congiuntamente alle aperture comunitarie che hanno interessato non solo facilitazioni di collegamenti, ma anche una più accentuata snellezza nei movimenti dei passeggeri, si pensi ad esempio al canale di Schengen cui possono liberamente transitare i cittadini della UE, deve essere stata l’intuizione decisiva che è balenata nella mente di chi ha lanciato le low cost in Europa.
In effetti a chi si ostina a voler paragonare le low cost europee alla fatidica Southwest statunitense, non ci stancheremo di ripetere che la Southwest ha avuto il terreno tutto “spianato” dall’essere una low cost domestica, mentre invece chi ha aperto il campo delle compagnie a basso costo europee andrebbe ricordato soprattutto per aver applicato il concetto di no frills, assai intuibile in un settore domestico, ai settori internazionali europei.
Era questo un esperimento assai rischioso, non scevro di rischi in quanto andava testato su tratte ove le compagnie tradizionali applicavano servizi di bordo personalizzati, catering di tutto rispetto a una utenza che notoriamente aveva da sempre associato la parola sconto al termine insicurezza.
A tal proposito val la pena ricordare alcuni commenti che accompagnarono l’apparizione sul mercato delle prime no frills-low cost per meglio comprendere quanto un fenomeno che oggi viene dato per scontato, abbia invece rappresentato un serio rischio imprenditoriale per chi in esso si è voluto cimentare.
Scriveva l’autorevole rivista Flight International nel settembre del ’97: “Once thriving US low-cost carriers are now fighting a losing battle against their larger rivals” e l’anno prima Mr. Richard Branson, fondatore della Virgin Express, lanciandosi nell’avventura delle low cost avvertiva che la nuova aerolinea rappresentava una scommessa.
Potremmo continuare a lungo con le citazioni per dimostrare come il lancio di una low cost fosse ben lungi dal rappresentare un sicura operazione commerciale; ma i tempi erano indubbiamente maturi e l’intuizione si è rivelata vincente.
Ebbene tornando al nostro appunto iniziale su come viene condotta l’industria aerea, per quale motivo una idea come questa non è venuta a chi dirigeva i vettori regolari ? Non erano quest’ultimi, che da decenni operavano sul mercato, che avrebbero dovuto rendersi conto che il mercato europeo era cambiato e che l’utenza, laddove le fosse permesso, non vedeva l’ora di potersi muovere con più libertà ?
Certamente, il non aver percepito i cambiamenti che erano nell’aria è una delle più evidenti responsabilità che si possono addossare all’industria aerea tradizionale, perché se si può capire la riluttanza ai cambiamenti sulle tratte intercontinentali multi-settoriali, altrettanto non doveva avvenire su quei settori point-to-point ove le norme comunitarie permettevano l’accesso a chiunque su nuove rotte, nonché più libertà di movimento negli arrivi e partenze per i cittadini appartenenti alla UE.
Invece è accaduto che le compagnie tradizionali hanno continuato ad offrire anche sui collegamenti punto a punto europei servizi su aeroporti affollati, con code interminabili ai check-in, con necessità di acquistare un biglietto cartaceo all’agenzia, con necessità di riconfermare il viaggio di ritorno, il tutto a tariffe notoriamente alte. La giustificazione ad una tale politica è presto detta: pasti e bevande a bordo gratis ma soprattutto un volo effettuato da una compagnia il cui “nome” si credeva con troppa presunzione essere inossidabile rispetto a qualunque nuovo entrante.
Ebbene se è vero che la new economy e la globalizzazione ci hanno reso tutti più poveri con conseguente necessità di effettuare risparmi, allora anche il viaggio aereo non poteva rimanere estraneo a questi cambiamenti, ma i vettori tradizionali, da sempre abituati a vivere sotto la comoda protezione governativa, non hanno saputo percepire il mutamento in atto.
A scanso di equivoci dobbiamo però precisare che era impensabile che le majors europee, notoriamente gravate da contratti di lavoro onerosi e da elefantiache strutture organizzative, potessero aprire rotte a prezzi stracciati come hanno fatto le low cost. Ciò però che esse potevano senz’altro fare era la creazione di new brand, con nuovi contratti di lavoro, che si fossero dedicate specificatamente a questo mercato. Paradossalmente ricordiamo come la British Airways una delle rare, se non l’unica compagnia che si era resa conto della validità dell’iniziativa, aveva lanciato la GO la quale però venne posta in vendita (acquistata dalla Easyjet) nell’agosto del 2002 fra i ringraziamenti ironici di tutti i vettori low cost.
La lezione che ne consegue è che low cost non ci si può improvvisare.
Conseguente a queste nostre considerazioni è il secondo punto, l’apparizione sul mercato di nuovi vettori, i quali puntano soprattutto ad inserirsi su quegli scali “secondari” locali , serviti solo, fino a pochi anni orsono, da qualche collegamento domestico su Milano e Roma.
Ora la situazione è tale che gli abitanti di molte città italiane dispongono di servizi diretti sulle maggiori capitali europee senza dover necessariamente transitare su Roma o Milano, a prezzi decisamente appetibili, il tutto grazie ai nuovi vettori i quali hanno come loro principale obiettivo l’inserimento di scali ritenuti secondari nel network dei servizi aerei continentali.
Con i cambiamenti rivoluzionari apportati dalle low cost, cosa accadrà alle ex compagnie di bandiera? Quale futuro si prospetta per loro? Da noi la domanda è assai attuale tenuto conto della critica situazione cui versa il vettore di bandiera.
Ormai tutti hanno capito che l’alleanza in Skyteam, pure annunciata come soluzione a tutti i problemi dell’Alitalia, era solo il primo passaggio, ma che ben altre azioni, più consistenti, sono richieste per uscire dal tunnel della crisi.
In un tale contesto si inserisce una recente dichiarazione di Paolo Sinigaglia, presidente di Alpi Eagles, che ha smentito qualsiasi interesse su Alitalia, mentre quasi contemporaneamente il Ministro dei Trasporti si augurava che l’Alitalia rimanesse il più a lungo possibile “vettore di bandiera”.
Nuovamente osserviamo l’estrema incertezza che contraddistingue questo settore. Da un lato ci si rende conto che forse l’unico modo per uscire dalla crisi sarebbe quella delle fusioni, dall’altra si riconosce che una nazione non può far a meno di un vettore rappresentativo della bandiera. E coloro i quali, guardando le cifre degli indicatori economici, avvertono che per l’Alitalia l’unico modo di uscirne è la “unione” con qualche altro vettore, evidentemente straniero, dimenticano però le difficoltà insite in una tale operazione. Tutto sta a chiarire infatti su cosa si intende per “unione”. Molto probabilmente questo termine viene usato per non pronunciarne un altro ancora più tabù: fusione. Ma allora ci si deve onestamente chiedere se vi è qualche nazione disposta a rinunciare al proprio vettore di bandiera. Il Belgio e la Svizzera hanno preferito arrivare alla chiusura di Sabena e Swissair ma nessuno dei responsabili che sapevano quale sorte si preannunciava all’orizzonte ha proposto di battere la strada di una fusione con un vettore straniero, perché parliamoci chiaro, fusione significa che uno dei due, verosimilmente il più debole, scompare dalla scena. E veramente si può credere che nell’attuale scenario politico europeo, una nazione accetti ciò? Noi riteniamo altamente improbabile che possa mai accadere qualcosa del genere.
Detto questo rimangono le più modeste “intese” , che qualcuno chiama matrimoni, che altro non sono che accordi commerciali grazie ai quali i vettori riescono a non spendere, e quindi risparmiare, pur dando l’impressione di ampliare (virtualmente) i loro network.
Questo è tutto quello che oggi è possibile, oltre non si può andare. Di certo però possiamo anticipare che sul lato del lungo raggio si dovrebbe assistere ad un ridimensionamento e assestamento della ripartizione dei traffici perché l’alto costo operativo che il long haul comporta per i vettori tradizionali, fa si che solo poche, selezionate aerolinee riusciranno a mantenere attivi i settori intercontinentali. Verosimilmente vi riusciranno solo quelle aerolinee alle cui spalle vi è una solida economia nazionale. A riprova di ciò basterà citare due attualissimi esempi sotto gli occhi di tutti: l’uscita della Qantas dalla pur affollata rotta Italia-Australia; l’incessante proliferare di ordini di nuovi velivoli da parte di compagnie medio-orientali come Emirates e Qatar Airways.
Da una parte quindi troviamo nomi eccellenti che gettano la spugna, evidentemente non riuscendo a quadrare dare e avere di rotte pur operate con alto load factor; dall’altra abbiamo vettori dei paesi arabi i quali, senza restrizioni economiche, investono, acquistano nuovi aerei ed aprono nuove rotte a lungo raggio.
Dei grandi vettori Usa di una volta, che pure hanno fatto la storia dell’aviazione commerciale si è perduta traccia, sommersi come sono dai debiti. Uno sguardo alle due tabelle da noi predisposte mostra come le aerolinee statunitensi siano completamente estranee ad ogni graduatoria sui profitti, mentre aumentano in queste graduatorie low cost, compagnie asiatiche e medio orientali.
È questa la prova più evidente che l’Europa e le compagnie occidentalizzate debbono ricostruire tutta la loro politica commerciale, mentre è il momento d’oro di quelle compagnie che hanno alle spalle sussidi nazionali o che agiscono completamente al di fuori dei classici schemi che hanno caratterizzato l’industria aerea commerciale negli anni passati .
Una domanda comunque va posta alle autorità che in Europa vietano sussidi e aiuti governativi alle compagnie continentali: dal momento che le aerolinee di paesi extra-UE, grazie agli aiuti governativi, riescono ad ampliare le flotte, ad aprire nuove rotte e ad aumentare le frequenze volando anche e soprattutto sui mercati occidentali, come possono le aerolinee di quest’ultimi paesi competere con esse se a loro è vietato avere quegli stessi aiuti?
Antonio Bordoni
LE PRIME TOP 20 PER PROFITTO
(milioni di dollari Usa)
1990 2002
1) Singapore Airlines 508.0 1) Lufthansa Group 681.0
2) Cathay Pacific 383.9 2) Singapore Airlines 635.0
3) Delta Airlines 302.8 3) Cathay Pacific 511.0
4) Thai Airways 262.6 4) Fedex Express 431.0
5) British Airways 169.6 5) Emirates Group 285.0
6) China Airlines 119.9 6) Southwest 241.0
7) Aerol. Argentinas 118.5 7) Ryanair 240.0
8) Federal Express 115.8 8) Thai 236.0
9) Malaysia Airlines 106.0 9) South African 225.0
10) Japan Airlines 95.1 10) Qantas 225.0
11) UAL Corp 94.5 11) Asiana 157.0
12) Vasp 88.6 12) Iberia 152.0
13) All Nippon Aw 81.6 13) British Airways 132.0
14) Garuda 77.3 14) Air France Group 120.0
15) Southwest 47.1 15) Japan System 96.0
16) Air India 41.5 16) China Airlines 90.0
17) Ethiopian Al. 41.2 17) Korean Air 90.0
18) Ansett 38.5 18) Alitalia 88.0
19)UPS 38.4 19) Malaysia 88.0
20) Aviaco 36.9 20) Skywest 87.0
I PIÙ ALTI MARGINI DI PROFITTO
1990 2002
1) Vasp 18.9 % 1) Ryanair 31.3 %
2) Singapore Airlines 18.4 2) JetBlue Airways 16.5
3) Aerol. Argentinas 16.6 3) Air New Zealand 15.7
4) Ethiopian 15.1 4) Skywest 15.3
5) Cathay 15.1 5) Air Nostrum 15.0
6) Thai 13.9 6) Thai 14.5
7) Malaysia 9.9 7) Air Mauritius 14.5
8) China Airlines 8.3 8) Cathay 14.4
9) Aviaco 8.2 9) Express Jet 13.6
10)Air 2000 6.9 10) Philippine Al 12.8
11) Nippon Cargo 5.9 11) Pakistan Int.al 12.8
12) Air India 5.6 12) Westjet 12.7
13) Garuda 5.1 13) Easyjet 12.6
14) Martinair 4.7 14) Arkia 12.6
15) Worldcorp 4.4 15) Virgin Blue 12.1
16) UPS 4.3 16) Champion Air 12.1
17) Virgin Atlantic 4.0 17) China Southern 11.2
18) Southwest 4.0 18) SAS Group 11.2
19) Linjeflyg 3.9 19) Croatia Airlines 11.0
20) Malev 3.9 20) Emirates 11.0
Antonio Bordoni