Di Salvatore Spoto.

L’aria immota, profumata di riti e miti religiosi dell’India, mi ha colpito non appena arrivato a New Delhi, inseguendomi fino sulle mistiche sponde del fiume Gange, a Varanasi. L’ultimo viaggio  non mi ha portato solo in un sognato Paese d’Oriente ma anche alle radici della nostra civiltà, quella europea, e non solo italiana.

 

Davanti alla folla, colorata, spesso rumorosa, vivace culturali, ma carica di anima, con quei bambini dagli splendidi occhioni, luminosi come il sole, ho ricordato antichi percorsi accademici delineati da un grande maestro, Georges Dumezil, con i suoi libri.
Mi  incantava, tra ragionamenti e dimostrazioni, della nostra derivazione dall’India. Chi sono i Francesi, gli Inglesi, i Tedeschi, gli Italiani, si proprio noi? Da dove vengono? Dove hanno lasciato le loro radici spinti verso Occidente, in epoca antichissima, tra il XV e il XII millennio avanti Cristo? Questo viaggio in India è stato un ritorno alle lontane radici, inconsapevolmente mai dimenticate.

Erano tempi bui. Dalle fredde steppe del Nord dell’Asia scendevano popoli assetati di sole e ricchezza. La gente della Valle dell’Indo e di quella del Gange, ma, più a est, altre genti , dell’Ellade, erano costrette ad abbandonare le loro terre, in conseguenza della calata fulminea nel Peloponneso dei feroci Dori. La caduta, poi, della civiltà cretese, la sconfitta di Troia, il dilagare degli Ixos che giunsero ad attaccare l’Egitto dei Faraoni, trasformarono il Mediterraneo in un mare brulicante di barche, tutte dirette verso Ovest, in cerca di una terra accogliente, che offrisse un fazzoletto di terra da coltivare e allevare qualche capo di bestiame.

Così in Italia arrivarono i primi popoli levantini, le “genti Italiche”: i Shardana, forse antenati dei Sardi, i Siklesh, antenati dei Siculi che si insediarono in Liguria per poi dilagare nella Pianura Padana, raggiungere il Lazio dove vissero fino a quando non arrivò un altro popolo, quello degli Aborigeni, che, come Dionigi d’Alicarnasso racconta, furono costretti a scendere fino alla Sicilia che si spartirono con un altro popolo di emigranti, i Sicani.

Ma sempre qui arrivarono i Troiani scampati alla strage, prima di continuare per Roma. Si formarono i popoli degli immigrati: gli Oschi, gli Umbri, i Sabelli, gli Apuli , i Brutii e altri.
Leggende?
Oppure anche storia? E se è tale, cosa rimane come testimonianza di questa antica migrazione che portò gli antenati dei moderni antenati in terra europea e, soprattutto, italiana?

Torniamo indietro nel tempo. Riviviamo l’epoca di Numa Pompilio, saggio re di Roma, colui che, secondo la tradizione, fondò la religione di Roma. Nello sfondo c’è la celebrata (e discussa) amicizia tra lui e Pitagora, il filosofo che, formatosi anche in India, trapiantò sulle rive dello Ionio italiano, la filosofia dell’anima che sopravvive al corpo, secondo la credenza religiosa di origine induista.

Ma il profumo dell’India, con la sopravvivenza della sua religione, si rivela in alcune espressioni sociali e architettoniche. La prima è rappresentata dal principio del fuoco sacro, con i riti a questo connesso. La seconda è tipica espressione di un popolo e della sua credenza: l’architettura.

Numa Pompilio, come tramandano le fonti, fu colui che istituì le
Vestali, ragazze consacrate agli Dei, custodi del fuoco che dovevano mantenere sempre accesso perché rappresentava l’unione tra Cielo e Terra, tra Dei e uomini. Il luogo destinato a custodire il fuoco sacro era il tempio di Vesta. A differenza di ogni altro tempio, non aveva pianta rettangolare ma rotonda, secondo la teoria religiosa indiana.

Basta leggere qualche passo dei “Veda”, antichissimi libri sacri indiani per scoprire analogie tra l’India religiosa e la Roma degli dei più antichi, espressione di una religione naturale, espressione della terra e del volgere delle stagioni. 
E poi i sacerdoti romani, il rex sacrificorum, il Pontifex maximum, tanto per citare i più importanti, che vestivano abiti color giallo e rosso e portavano un berretto a punta che tanto li faceva somigliare ai monaci orientali.

E per chiudere, è opportuno ricordare l’aspetto importante,  perchè verificabile, quello linguistico. La valle ai piedi del Palatino, prima della costruzione del Circo Massimo, era chiamata “Valle Murcia”. La derivazione dal sanscrito, lingua dell’antica India, è chiara: deriva dalla parola Murkos (grafia italiana, mi scuso con i linguisti), significava “latte”.

Era, dunque, la valle del benessere e della fecondità. Qui c’era il celebre ficus ruminalis, dove si fermò la cesta con Romolo e Remo. Il fico, come sappiamo, da una sostanza lattiginosa, che nell’antichità aveva un significato magico. In questa valle ci fu il celebre ratto delle Sabine che, come ho dimostrato in alcuni miei libri, in particolare Roma esoterica (Newton&Compton ed.), non fu un vero e proprio ratto, ma un matrimonio mediante sottrazione della donna alla propria famiglia, secondo il rito greco e, comunque, orientale.
Romolo discendente da lontani immigrati dall’India?

E per noi, turisti in India per scoprire non solo un meraviglioso Paese ma anche le nostre lontane origini, rimaste nell’inconscio?