di Antonio Bordoni.
Una volta, tanti anni orsono, i governi esigevano una compagnia aerea per il proprio paese. Era una questione di prestigio da cui non si poteva prescindere. Erano gli anni in cui tutte le compagnie aeree erano iscritte alla IATA e tutte applicavano le stesse tariffe.
A ben riflettere se la tua compagnia applicava le stesse tariffe del concorrente non ci sarebbe stato affatto bisogno di darsi tanto da fare per avere la propria compagnia: anche se si sceglieva un’altra aerolinea il prezzo del biglietto era in ogni caso lo stesso, ma così andavano le cose.
Poi un bel giorno arrivò la concorrenza, i cieli si aprirono e gli aeroporti di ogni nazione sono stati inondati da una miriade di compagnie. Una cosa apparve subito evidente: se fino al giorno prima le compagnie potevano contare sull’appoggio, sia finanziario che operativo del proprio governo, le cose erano destinate a cambiare drasticamente ed ogni vettore era chiamato a dar prova di capacità ed efficienza gestionale, pena la sua scomparsa dal palcoscenico mondiale.
Oggi, ad oltre 40 anni dall’avvio della deregulation, l’industria delle compagnie aeree conta quasi un migliaio di aerolinee, muove ogni anno oltre quattro miliardi di passeggeri e rende possibile quel flusso turistico senza il quale, ne abbiamo avuto la prova in questi mesi di blocco, interi paesi rischiano crisi finanziarie senza precedenti.
Le aerolinee, possiamo ben dirlo, svolgono un ruolo insostituibile in questo contesto ma ciò avviene indipendentemente dalla bandiera di appartenenza della compagnia aerea. In Italia lo ha dimostrato in maniera inequivocabile la irlandese Ryanair.
Preso atto di ciò molti paesi hanno cambiato strategia sulla politica da adottare nei confronti dei loro vettori, ma le varianti sul tema sono alquanto variegate.
Innanzitutto troviamo paesi, come ad esempio gli Stati Uniti d’America, che esigono che la maggioranza azionaria dei propri vettori rimanga in mano a soggetti del proprio paese. Altri che non hanno avuto remore nel cedere l’intero pacchetto azionario in mani straniere quali ad esempio Austria, Svizzera e Belgio.
Un terzo gruppo infine ha cercato di mantenere una parvenza di nazionalità sia pur formando gruppi insieme ad altri vettori, possiamo far rientrare sotto questa fattispecie Olanda e Francia, Spagna e Inghilterra. Poi ci sono gli outsider, i lupi solitari quelli che non fanno capire cosa vogliono fare e sotto questa specie potremmo tranquillamente far rientrare l’Italia.
Risolto quindi, sia pur con vari stratagemmi, lo scoglio della nazionalità, la domanda che ci si dovrebbe porre, specialmente da noi paese dalle dispute perenni, è se ci sia veramente bisogno di un vettore di bandiera. E soprattutto quanto conviene ancora, dal punto di vista imprenditoriale, investire in un settore che ormai risulta costruito attorno a consolidati gruppi internazionali?
Soffermandoci sull’Italia, la crisi pluridecennale cui ci ha assuefatto Alitalia, il continuo taglio delle rotte, l’invasione avvenuta da parte di compagnie straniere ha abituato ormai l’utenza presente nel nostro bacino di traffico a spostarsi da un paese all’altro avvalendosi di compagnie straniere.
Al diffondersi del nuovo trend ha giocato un ruolo fondamentale il particolare che oggi è la tariffa la discriminante primaria per la scelta dell’aerolinea, non certo la nazionalità del vettore cui nessuno fa ormai più caso. E stessa cosa può dirsi anche per il fattore “sicurezza” in quanto l’incidente aereo si è fatto davvero un evento rarissimo e la domanda “ma questa compagnia aerea è sicura?” è anch’essa non più di attualità.
Una volta poi il vettore nazionale serviva ad assicurare collegamenti aerei su rotte in perdita le quali comunque dovevano venir svolte per non isolare comunità locali. Oggi questa tipologia di collegamenti può essere affidata a vettori stranieri e pertanto anche questa ulteriore necessità è venuta a decadere.
Sembra proprio potersi dire che, sotto qualsiasi angolazione lo si voglia guardare, del vettore nazionale si possa fare a meno.
Le osservazioni da noi fatte trovano puntuale conferma nelle cifre diramate proprio in questi giorni dall’Enac, Ente Nazionale Aviaione Civile, le quali mostrano i dati di traffico dell’anno 2019 sugli aeroporti italiani. (1)
Ebbene a fronte di quasi 40 milioni di passeggeri movimentati da/per l’Italia da Ryanair, se sommiamo il numero passeggeri trasportato dai nostri 6 vettori nazionali, non si giunge alla cifra di 30 milioni. (2)
Ciò significa che sei compagnie aeree italiane messe insieme hanno movimentato dieci milioni di passeggeri in meno di quello che l’irlandese Ryanair riesce a fare da sola.
RYANAIR 39.836.000
Alitalia 21.766.000
Air Italy 2.131.000
Air Dolomiti 1.630.000
Neos 1.583.000
Blue Panorama 1.387.000
Ernest 891.000
TOTALE VETTORI ITALIANI 29.388.000
Di fronte a tali cifre con quali argomenti si può ancora sostenere che il vettore di bandiera è una scelta prioritaria? Se lo si vuole a tutti i costi mantenere, una cosa deve essere chiara: a giochi fatti il suo ruolo sullo scenario internazionale non potrà essere altro che subalterno a quello di altri vettori consolidati.
- Riquadro VET-1 (pagg. 67 e 68) della pubblicazione “Dati di traffico 2019” dell’Enac.
- Si noti il particolare che la compagnia Air Dolomiti viene riportata dall’Enac come compagnia italiana, ma in realtà essa è controllata al 100 per cento da Lufthansa e come tale il suo numero passeggeri andrebbe escluso dal nostro conteggio.
Tratto da
www.aviation-industry-news.com