Ennesimo grido di allarme alla conferenza Iata di Istanbul. La salvezza dalle alghe marine?

“Aumenta il prezzo del barile del petrolio, ieri era a….oggi è arrivato a… “
Così mentre una volta eravamo abituati ad aumenti periodici e motivati, da un po’ di tempo a questa parte invece il prezzo del barile cresce quotidianamente. Guerre in atto? Colpi di Stato in qualche paese produttore? Di solito erano questi i motivi classici che giustificavano una tensione sui prezzi. Chi non ricorda la guerra del Kippur del 1973, la crisi del Medio Oriente e gli aumenti che ne seguirono? Ma almeno allora c’era un motivo tecnico, ossia la tensione che contraddistingueva l’area in questione ove sono collocati i maggiori paesi produttori.Oggi invece il prezzo del barile aumenta senza che qualcuno ci spieghi il perché, senza una giustificazione logica, tutto ciò che si può dire che tutto è partito da quando l’euro ha iniziato ad apprezzarsi sul dollaro e da quando negli Usa è scoppiato il caso dei subprime che ha messo in crisi l’economia statunitense, e non solo questa.

Il particolare inquietante è che leggendo le testate specializzate in finanza ed economia, quelle che dovrebbero fornire lumi in merito, tutti candidamente ammettono che non si capisce il perché di questi aumenti. Così facendo si vorrebbe far credere che dietro alla produzione del petrolio e al suo prezzo, non vi sono individui o società ben individuabili, ma il nulla, tanto che su Fortune Magazine un articolista dopo aver ricordato anche lui che “nessuno sa cosa sta accadendo”, ha aggiunto pure “allora dato che ci siamo, perchè non facciamo mille dollari al barile? Almeno è una cifra tonda, tonda…”.  Insomma mettiamoci l’anima in pace: il prezzo del petrolio viene assimilato alla pari di una tempesta, di un tornado, di un evento meteorologico assolutamente imprevedibile e contro il quale non vi sono responsabili, non c’è nulla da fare e non vi sono spiegazioni da fornire.

Per le compagnie aeree, i conti del carburante in ascesa hanno significato un salasso. Ed è in questo clima che ad Istanbul si è tenuta, il 2-3 giugno scorso, l’annuale conferenza della IATA.
Per quanto fossero quattro i maggiori topics in agenda, contrassegnati con le lettere “B-M-T-A” ossia Bancarotta, Mergers, Tagli e Ambiente, alla fine l’argomento che ha tenuto banco è stato il prezzo del petrolio e non poteva essere differentemente. Il 2007 ha fatto registrare per le compagnie aderenti alla Iata un profitto netto derivante dalle sole operazioni di volo, di 5,6 miliardi di dollari; secondo i dati Icao invece il profitto operativo è di 16,3 miliardi di dollari. Tenuto conto che nell’anno in questione la media del costo del barile è stata di 73 dollari c’è da essere soddisfatti di aver raggiunto l’1,1 per cento di margine di guadagno.

Ma, risultati del 2007 a parte, non si poteva fingere di ignorare che mentre Giovanni Bisignani illustrava ai convenuti i risultati dell’anno concluso, il prezzo del barile aveva abbondantemente superato i 100 dollari e, come detto, continuava il suo folle rialzo giornaliero. Così il presidente della Iata ha ritenuto opportuno precisare che per ogni dollaro di aumento del prezzo del carburante, i costi per le compagnie salgono di 1,6 miliardi di dollari. Ipotizzando che il prezzo rimanga stabile a 135 per la rimanente parte dell’anno, l’industria aerea per il 2008 perderebbe qualcosa stimato intorno ai 6 miliardi di dollari.

Di fronte a queste cifre da spavento l’annuncio di aver raggiunto il traguardo del 100% di biglietteria elettronica con i risparmi che ne conseguono, diveniva la classica goccia in mezzo all’oceano. James May della statunitense ATA (Air Transport Association) ha dichiarato che nell’anno 2008 le sole compagnie Usa dovrebbero perdere, a causa del caro petrolio, qualcosa come 10 miliardi di dollari. L’industria aerea insomma non trova pace e rincorre un qualcosa, il profitto, che per un motivo o per un altro si allontana sempre più. E questo malgrado motori più efficienti che consumano meno carburante, malgrado l’aver attuato il “free flight” ovvero essersi svincolati dai percorsi obbligati delle aerovie, malgrado il già ricordato biglietto elettronico, malgrado i code sharing, malgrado i tagli al personale, eccetera, eccetera. Ogni volta che l’industria sembra aver raggiunto un nuovo significativo traguardo, da dietro l’angolo spunta una novità che vanifica quello che si è fatto. Secondo quanto affermato a Istanbul, nei prossimi 10 anni le aerolinee avranno bisogno di 18.000 nuovi velivoli, per far volare i quali sarà necessario disporre di 19.000 piloti ogni anno. Ora di fronte a questi outlook si potrebbe pensare che l’industria dell’aviazione commerciale ha chissà quali prospettive davanti a se. Ma la verità è, come disse lo stesso Bisignani qualche anno orsono, che dall’aviazione civile tutti riescono a far soldi meno le dirette interessate cioè le aerolinee.

E questo paradosso economico che dovrebbe essere oggetto di studio, anno dopo anno si rivela sempre più attuale e valido, per i motivi più disparati. Ad esempio dall’anno 2001 al 2007 le aerolinee e i loro clienti, i passeggeri, hanno dovuto pagare qualcosa come 30 miliardi di dollari per le misure sulla sicurezza intraprese dopo gli eventi del 9/11. Già perché la sicurezza di un mezzo di trasporto pubblico, nel caso dell’aviazione civile si è finita per riversare, contro ogni logica, sulle tasche dei viaggiatori e dei vettori.

Per il momento i vettori sono a corto di idee perché è sempre più arduo inventarsi cosa altro tagliare. Così, per risparmiare carburante, la Qantas ha deciso di ridurre la velocità di crociera dei suoi voli mentre qualche compagnia statunitense ha deciso di ridurre le scorte dell’acqua a bordo. Qualche altro vettore ha deciso invece di far pagare una fee per la prima valigia consegnata al check-in, altri a partire dalla seconda. Con quest’ultimi interventi si allunga la lista delle spese corollarie che fanno del totale da pagare per la tariffa aerea un qualcosa di sempre più difficile individuazione, mentre alla British Airways il CEO Willie Walsh avverte “il pubblico si può scordare basse tariffe nel prossimo futuro”.

In un successivo intervento occorso nell’ambito di un simposio con la Sita, Giovanni Bisignani ha svelato che alcune compagnie aeree stanno sperimentando l’uso di biocarburanti ricavati dalle alghe marine; “l’obiettivo – ha detto Bisignani – è che entro 10 anni questi carburanti verdi costituiscano il dieci per cento del carburante utilizzato per il trasporto aereo”. Tirando le somme, all’assemblea della Iata di Istanbul si è levato l’ennesimo grido di allarme di una industria che non ha mai conosciuto un periodo di relativa tranquillità. Il Senatore Umberto Bossi aveva decisamente ragione quando commentando la crisi di Alitalia e l’assenza di acquirenti, avvertiva che nell’industria delle compagnie aeree è arduo trovare investitori perché questo è un settore dove non si fanno soldi.


Antonio Bordoni