Di Paola Mussoni

Spicchio d’Africa strettamente legato a doppio filo all’Italia, alla sua storia ed alla sua cultura.  Dall’antichità a tempi recenti queste due nazioni hanno intrecciato glorie, splendori, progresso e miserie. In alterne vicende nei secoli si sono confrontate, fuse e separate, per regalarci oggi un libro di conoscenza da sfogliare ed assaporare in tutte le sue sfaccettature, dalle testimonianze archeologiche dell’antico Impero Romano, alla più recente architettura coloniale, ma il tutto intessuto in un telaio di vita e cultura tradizionale che esalta e caratterizza profondamente questo territorio arso e desertico, ma ricco di una propria impronta etnica e naturale. Un territorio vasto più di 5 volte l’Italia, ma per il 90 per cento occupato dal deserto che ha portato la popolazione a vivere prevalentemente sulla lunga fascia costiera che gode del più mite clima mediterraneo, con un invitante e pescoso mare dalle mille tonalità di verde e azzurro e con ricche e assortite colture che riempiono delle più svariate mercanzie gli animati mercati con pesci freschissimi sistemati su banconi di marmo, frutti, verdure, legumi e spezie come l’harissa, una sorta di salsa al peperoncino veramente stimolante, che creano vivaci policromie attirando lo sguardo dei passanti e stuzzicandone il palato.

Gusti prevalentemente speziati che intrigano e invogliano a provare le pietanze libiche, che hanno come piatto principe il famoso e particolare cous-cous che non si può fare a meno di assaggiare e riassaporare nelle sue varianti di carne o pesce. I dolci poi sono squisiti ed originali nei loro impasti di miele, sesamo, nocciole e mandorle, mentre gli energetici datteri sono presenti sulle tavole sin dalla prima colazione nei numerosissimi tipi che ne diversificano il sapore.  Ed alla fine di ogni pasto non può mancare il buonissimo shay, tè aromatizzato alla menta, più scuro e denso del tipico anglosassone, offerto ritualmente in appositi bicchierini come vuole l’antichissima tradizione dei Tuareg. Quegli affascinanti e misteriosi Tuareg celati dietro il tipico turbante blu che lascia intravedere solo gli intensi e sapienti occhi dai quali trapela atavica conoscenza e profonda esperienza per affrontare la difficile vita nell’ostico ambiente desertico, nel quale si muovono in pittoresche carovane accompagnati dagli inseparabili ed indispensabili dromedari, non per niente soprannominati “navi del deserto”.

Quel deserto che man mano che ci si allontana dalla ridente e verde costa mostra i suoi più diversificati aspetti: si trasforma da roccioso (hamadah) a ciottoloso (sarir) e infine sabbioso (erg), regalando paesaggi sempre nuovi ed accattivanti, dai mutevoli colori e dalle affascinanti atmosfere.

 

Fin dove resiste qualche cespuglio d’erba i nomadi accompagnano il bestiame al pascolo; greggi di comuni ovini si contrappongono ad inconsuete, per noi europei, mandrie di dromedari.

Sono quadri originali punteggiati da strane sagome dalle brune tonalità che sfumano fino al bianco del mantello di più rari esemplari che pascolano pacifici col loro buffo ruminare, insieme alle graziose miniature dei piccoli.

Perdersi in queste distese sconfinate regala un senso di libertà e scoperte inaspettate, come trovarsi dinanzi all’improvviso, come un miraggio, due piccoli laghi salati dove potersi tuffare per un bagno rigenerante, gemme verdi incastonate in una corona di cespugli in un mare di sabbia infinito, prodigio della natura!

 Quando poi la sabbia prende definitivamente il sopravvento sulla residua vegetazione, cominciano a comparire le ondulate dune che si muovono sinuose sotto l’azione costante dei venti che ne ridisegnano i contorni dai taglienti profili; mentre i raggi del sole fanno brillare come diamanti i singoli granelli che luccicano su un mantello dorato che, via via che il sole si va a nascondere dietro l’ultima duna tingendo il cielo di rosso, degrada in una tavolozza di sfumature.

E tu, che hai faticosamente scalato a piedi nudi quei declivi sabbiosi, ora, dopo esserti appagato assistendo ammirato al quotidiano miracolo del tramonto, non puoi resistere alla puerile attrazione di rotolarti giù a scapicollo riempiendoti di sabbia fin sopra i capelli!

Quel deserto che regala emozioni e custodisce gioielli della natura e del lavoro umano, che insieme sanno forgiare armoniose meraviglie.  Come il Grande Fiume, una delle più mastodontiche ed ambiziose opere ingegneristiche dell’uomo che ha saputo sfruttare gli enormi bacini di acqua fossile custoditi nelle profondità del deserto e che oggi permettono a milioni di persone di usufruire d’acqua dolce e potabile.

Ma più sorprendenti e fiabesche ci appaiono le oasi: reali miraggi di un porto sicuro in un mare ostile e selvaggio, che offrono riparo a quelle “navi del deserto” ed ai loro carovanieri tenaci e coraggiosi.

Capolavori di ingegneria idraulica che hanno permesso nei secoli di rubare piccoli fazzoletti di terra fertile all’arido e sconfinato Sahara.

 Opere industriose e di immensa portata sociale che hanno creato le condizioni per permettere a piccole comunità di vivere anche in un ambiente così avverso, come l’oasi di Ghadames.

Chiamata dagli arabi “perla del deserto” e dichiarata per la sua importanza storico-artistica patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, è posta all’incrocio di antiche vie carovaniere e incuneata in un angolo del Paese al confine tra Algeria e Tunisia.

 La città vecchia è un dedalo intricato di viuzze coperte, abbellite da archi, archetti, cupole, scalette, colonne tortili e ricami a bassorilievo, tutto sapientemente riparato dalla calura esterna con architetture rigorosamente imbiancate a calce per riflettere i raggi del cocente sole africano, che riescono a favorire un benefico refrigerio, e con rifiniture color terra per armonizzarsi all’ambiente circostante.

Si apre poi in cortili, piazzette e nella più vasta piazza con la vasca di raccolta della preziosa acqua smeraldina, la fonte di Ain al-Faras “fonte della cavalla” dove, secondo la tradizione, sgorgò l’acqua dell’oasi proprio sotto lo scalpitio degli zoccoli della cavalla del conquistatore arabo Ocba Ben Nafa nel VII sec. e che ancora oggi rappresenta la principale risorsa idrica della città, e poi di nuovo buie stradine coperte con di tanto in tanto una presa d’aria da dove filtra la luce e occhieggia uno squarcio d’azzurro, il tutto circondato in un verde abbraccio dal rigoglioso palmeto che la ombreggia e dà un tocco di colore al bicromatismo delle case.

Case che internamente invece stupiscono per l’esubero di colori e decorazioni, tappezzate come sono di stoviglie ramate, specchi, coprivivande di paglia intrecciata e colorata, porte, porticine e stipetti multicolori incorniciati da un insieme di linee capricciose, bizzarre e intrecciate a mo’ di arabeschi prevalentemente rossi scaturiti dalla fantasia femminile, e tappeti variopinti un po’ ovunque, dove poter camminare scalzi e accomodarsi in terra per conversare, consumare i pasti o riposare su abbondanti e morbidi cuscini.

Ma, al di fuori della sala comune, gli ambienti sono separati per gli uomini e le donne e anzi, con queste strutture così fatte abitate da popolazioni stanziali berbere, l’oasi era ripartita in più piani, dove nella parte bassa si muoveva la “città degli uomini” e sulle terrazze sapientemente collegate si sviluppava la “città delle donne”.

Anche l’ultimo nuovo splendido albergo nato ai margini dell’abitato richiama lo stile costruttivo della vecchia Ghadames, ricalcandone le forme in muratura, dai letti alle nicchie, alla grande cisterna al centro del giardino su cui si affacciano a verandina le deliziose stanze.  Ma più stupefacenti ed antiche architetture sono custodite nell’arido deserto, sul percorso che separa Tripoli da Ghadames.

Affiorano tra i ruderi di antichi insediamenti: sono gli originali qasr, granai fortificati sorti in posizione elevata per essere meglio protetti dagli attacchi dei predoni, con una struttura circolare aperta all’interno da un alveare di celle disposte su più livelli, accessibili attraverso pioli infissi nelle pareti o scale in legno o argilla, che conservavano in panciuti orci le preziose granaglie per il sostentamento delle popolazioni berbere di questi caratteristici villaggi.

In un territorio con rilevanti escursioni termiche infatti, questi singolari granai realizzati in roccia, gesso e fango garantiscono tuttora una temperatura costante per il buon mantenimento dei raccolti.

Cuore della comunità, erano circondati da diverse abitazioni, luoghi di culto e logicamente spazi per la macina dei cereali e frantoi, che lasciano facilmente immaginare come poteva svolgersi la vita nel periodo di massima attività per questi paesi, come quello spettacolare di Kabaw, tra i più caratteristici e meglio conservati, o quello di Yafran dall’originale pianta ovale, o di Nalut, situato a 600 m. di altitudine e posto al culmine del borgo, singolare esempio della perfezione costruttiva raggiunta circa mille anni fa, con lunghe e strette stradine a spirale affiancate da alte pareti traforate da circa 300 preziosi ripostigli disposti su cinque o sei livelli sovrapposti, ordinato groviglio di misteriosi antri che ti calano in un sistema di vita ancestrale e ti invitano a perderti in questo labirinto intriso di storia ed affascinanti atmosfere.

Come ti calano nella storia le imponenti rovine delle antiche città romane, qui così ben conservate a testimonianza del grandioso Impero, di passati fasti e leggibile specchio delle architetture e della vita di una Roma ormai distante dall’odierna, lontana da sistemi ed abitudini rimasti però impressi nelle indelebili vestigia che ci ha lasciato in eredità.

Da Sabratha a Leptis Magna si può fare un viaggio a ritroso nel tempo e riscoprire quelle strutture che la città di Roma ha ormai inglobato nel suo tessuto urbico, mentre in questi importanti siti archeologici sono rimaste a documento degli antichi splendori di un Impero agli apici del suo sviluppo economico e culturale, dando una perfetta e reale idea di come poteva presentarsi la “città eterna” a quei tempi, entrando quindi a pieno merito nel patrimonio mondiale dell’umanità riconosciuti dall’UNESCO.

Sabratha ad ovest e Leptis Magna ad est di Tripoli, sono sorte entrambe lungo il litorale, in prossimità di approdi sicuri per le imbarcazioni utilizzate prevalentemente per gli scambi commerciali col resto del Mediterraneo e le zone più interne dell’Africa sahariana.

Il cardo romano introduce allo splendore di queste città e conduce attraverso i principali raffinati monumenti, fra cui il foro che rappresenta il loro cuore pulsante.

Uno dei principali simboli, che rimangono maggiormente impressi al visitatore, è per Sabratha il Mausoleo di Bes, ben visibile con i suoi 24 m. di altezza e ben riconoscibile per la sua particolare forma che culmina con una piramide.

Dedicato al dio Bes che, per essere divenuto la divinità protettrice della navigazione, ma diciamolo, ancor più per il suo aspetto che non rispecchiava per nulla i canoni della bellezza, veniva effigiato come polena sulla prua delle navi, fungendo così da spauracchio per scacciare il male e fermare le tempeste.

 Mentre il teatro incanta semplicemente presentandosi ai visitatori come un superbo spettacolo di una magnifica ricostruzione che ha ridonato un fronte scena a tre loggiati, che con i suoi circa 25 m. d’altezza innalza una stupenda quinta scenografica che prospetta sul blu del cielo e il turchese del mare; il pulpito poi ricama finemente la scena con deliziose decorazioni a rilievo chiuse da due splendidi delfini.

Il simbolo massimo invece della più vasta Leptis Magna è sicuramente l’imponente Arco di Settimio Severo, eretto per l’Imperatore dal quale prese il nome, dato che qui nacque e qui volle costruire opere grandiose e lasciare ai posteri i più maestosi monumenti, rendendo la sua città veramente “Magna”.

Posto in posizione strategica all’incrocio del cardo col decumano introduce alla scoperta delle meraviglie di questo impero in miniatura, una “Roma delle sabbie” che scintillava già da lontano come un miraggio con i suoi sfolgoranti edifici dagli splendidi marmi bianchi.

 Così fusti di colonne dalle pregiate venature disegnano le piante dei templi, del mercato, di importanti edifici pubblici e del nuovo foro Severiano ornato da pregevoli teste di gorgoni; absidi incorniciate da pilastri magistralmente lavorati a basso ed alto rilievo con scene mitologiche, decori a volute di tralci e pampini e figure di animali, rendono l’idea di immense basiliche riccamente decorate; vasche dai ricchi rivestimenti, condutture in terracotta ancor oggi leggibili e splendidi pavimenti a mosaico danno l’impressione di vedere di lì a poco antichi romani rilassarsi nelle fastose terme per la cura del proprio benessere fisico, e poi, perché no, pubbliche latrine, luoghi di conversazione e scambi di idee, dove prendere anche decisioni importanti.

Mentre la magnificenza assoluta si contempla nell’imponente teatro, scena di mille rappresentazioni che riecheggiano ancora con i loro antichi versi e canti acclamati dal festante pubblico.

Quel pubblico ancor più infervorato dai giochi disputati nel grandioso e sorprendente anfiteatro costruito non in elevazione, ma incavato nel terreno e collegato da corridoi sotterranei, dove far passare le feroci fiere, all’attiguo circo a ridosso del mare, secondo per grandezza solo al Circo Massimo di Roma, dove ancora si possono immaginare le bighe disputarsi la corsa avvolte in nuvole di polvere.

 E considerato il risaputo senso estetico dei romani, il tutto non poteva che essere posizionato in siti paesaggistici altamente suggestivi, con un attento studio dell’orientamento che permetteva al sole di illuminare con diverse tinte durante l’arco della giornata i preziosi marmi, le arenarie ed i graniti utilizzati per la costruzione delle loro città, a ridosso della costa e dello splendido mare che fa da  naturale fondale scenico a queste creazioni dell’ingegno e dell’arte umana che in questi luoghi è stata espressa veramente nelle forme più alte.

 Ma qui a Leptis Magna proprio errori ingegneristici hanno decretato la decadenza di questa insigne città che, costruita intorno a quel porto che ne segnò l’ascesa portandole nei secoli ricchezza e gloria, ha visto insabbiare quel bacino, naturale approdo facile e sicuro, per errati interventi di ampliamento fino al suo totale inutilizzo.

 Quella sabbia amica e nemica che dona e nega, che copre e svela.

 Dopo secoli infatti che queste città erano ormai credute perse, sono pian piano riemerse da quelle sabbie che inesorabilmente le avevano invase e nascoste conservandole nel tempo e restituendole oggi, dopo annosi e minuziosi scavi, alla gioia dei nostri occhi, alla conoscenza storica e all’arricchimento culturale di ognuno di noi.

 Porto invece ancora nel pieno delle sue attività commerciali e turistiche è quello della fiorente capitale Tripoli; dalle tre anime: la medina, la città italiana e quella moderna, tre fasce urbane cresciute una a ridosso dell’altra che permettono di visitarle passando in rassegna la storia della città.

La medina, il vecchio quartiere arabo che sorge sul sito dell’insediamento romano, ne abbraccia il bacino più interno, al di fuori di essa si estende a ventaglio la città coloniale con ancora notevoli tracce dell’impronta architettonica italiana, dagli originali tratti stilistici rielaborati da reminescenze romane, il tutto circondato dalla moderna metropoli che si è sviluppata con nuovissimi simboli che caratterizzano in modo inconfondibile il profilo urbico. Lunghe strade corse da portici e aperte su ampie gallerie permettono di godere dell’ombra nelle giornate più torride e di rilassarsi nei bar all’aperto che offrono da bere tè e da fumare l’immancabile narghilè in nuvole di fumo che emana aromi di mela, fragola e mille altri sentori, immergendo in un’atmosfera rilassata d’altri tempi.

Quell’atmosfera autentica, tutta mediorientale, che si respira soprattutto nei suq, i caratteristici mercati della medina in cui è piacevole percorrere le viuzze accedendo ai numerosi piccoli empori assiepati di mille oggetti, dove è apprezzabile fare schopping in tutta tranquillità, dettata dalla dignitosa riservatezza dei bottegai, ed ammirare al lavoro i pittoreschi cesellatori o i battirame, custodi di antichi mestieri, che con arte millenaria fanno risuonare nei vicoli il rimbombo costante e preciso del martello creando meravigliosi manufatti artigianali come le caratteristiche mezzelune dorate islamiche, evocando realmente atmosfere che travalicano il tempo.

Mentre altre stradine rivelano usi e costumi della Tripolitania mettendo in mostra i folkloristici abiti sia femminili che maschili usati principalmente per le cerimonie, ricchi di ricami e lustrini e di particolari accessori lontani dall’uso comune, come i ricchi ornamenti in pietre e metalli preziosi, l’oro è infatti il materiale principe della ritualità matrimoniale, che brillano dalle vetrine ben fornite ed allineate in sequenza a seconda della varietà degli articoli esposti.

 Articoli apprezzati quindi non solo dai turisti, che vi trovano soprattutto l’originalità, ma anche e prevalentemente dai locali che rivelano il loro spirito di attaccamento alle tradizioni.

Tradizioni che si palesano maggiormente durante il Ramadan in cui i musulmani rispettano con tutta la loro devozione le più tipiche usanze e pratiche del periodo.

E’ un mese, il nono del calendario musulmano, in cui si mettono fra parentesi le normali attività giornaliere e ci si dedica più all’introspezione nel riserbo delle proprie consuetudini soprattutto religiose, nelle case come nelle oltre 30 moschee, veri capolavori d’arte islamica che caratterizzano l’antico cuore di Tripoli.

Rimane quindi più difficile poter immortalare immagini di belle donne velate e anziani nei loro tipici costumi, ma si ha l’opportunità di vivere un’esperienza culturalmente interessante interagendo rispettosamente con gli usi ed i riti musulmani, comprendendo quindi meglio questa tradizione religiosa che si respira veramente nell’aria, con i ritmi lenti della giornata che si trasforma in festa all’apparire della prima stella quando la gente può riprendere tutte le normali attività quotidiane, fino all’Id as-Saghir, festa culminante di tre giorni celebrata in allegria che decreta la fine del mese del digiuno rituale.

Tutta la città si anima e si adorna di luminarie che esaltano ancor più i suoi monumenti più simbolici, come l’Arco di Marco Aurelio, altra pregevole testimonianza dell’antica Roma e unica grande vestigia di Oea, la colonia romana che sarebbe divenuta Tripoli, o il Castello Rosso, poderosa struttura che affrontò nei secoli grandi scontri, assedi e battaglie cruente, e che oggi invece ospita un idilliaco quanto interessante museo storico, il Museo della Jamahiriya, allestito con la consulenza dell’UNESCO per la ricchezza e la raffinatezza dei suoi reperti, soprattutto greco-romani, ma che ripercorrono tutta la storia della Libia dalle origini ai giorni nostri, affascinando il visitatore che riesce a cogliere i diversi stili e le diverse atmosfere che costituiscono l’essenza stessa della fortezza.

Fortezza dai massicci bastioni contrapposti agli snelli ed eleganti archi che lasciano intravedere il verde delle palme dei suoi cortili a giardino abbelliti da piastrelle policrome a decorazioni floreali o geometriche e da fontanelle e colonne sormontate da istoriati capitelli.

Il Castello di Tripoli, che una volta si protendeva nel mare basso e sabbioso, ora si specchia in un laghetto artificiale, conseguenza della costruzione della nuova litoranea che ha spostato in avanti la linea costiera, stravolgendo il vecchio lungomare disegnato da urbanisti che l’abbellirono con splendidi filari di palme ed eleganti ville immerse nei palmeti progettate per avere direttamente l’accesso dal mare, perdendo di conseguenza molto del loro fascino.

 Quel fascino che invece è rimasto intatto nei resti delle lussuose residenze romane che anticamente risplendevano di magnificenze architettoniche e stilistiche, lambite dal mare, sul quale si affacciavano contornate da lunghi arenili per facili approdi.

Una tra le più interessanti è sicuramente Qabilah (Villa) Silin, sita tra Tripoli e Leptis Magna in un bellissimo contesto costiero.

Sorprende con i suoi raffinati mosaici policromi pavimentali di eccelsa fattura, con motivi geometrici, floreali e figurati di rara intensità espressiva che si estendono al di fuori ed all’interno dei numerosi locali della villa che ruota attorno ad un grande peristilio aperto sul mare e circondato su tre lati da colonne; alle pareti si possono ancora ammirare sbiaditi ma efficaci affreschi, deliziosi quelli, pieni di grazia, della stanza dei bambini.

  Nei diversi ambienti si possono ancora riconoscere il tempietto privato e le terme private, abbelliti da rivestimenti in splendidi marmi pregiati.

 Per decine di chilometri lungo la costa vennero disegnate su quasi ogni promontorio queste sontuose ville della borghesia mercantile leptiana che si costruiva rifugi di lusso e rese grande la vicina Leptis Magna portandola al suo massimo splendore.

 Uno splendore fermo nel tempo, che se prima viveva delle importanti attività dell’Impero Romano, ora vive delle glorie passate e dell’immagine che oggi regala a chi può sognare i remoti fasti e portarli con sé come icona di una parte di storia che ci appartiene.

Testo di Paola Mussoni

Foto di Liliana Comandè