di Paola Mussoni

In un Paese in cui regna l’irrazionale ed il soprannaturale tutto assume connotati magici ed imperscrutabili, come l’inesplicabile serenità che trapela da visi di genti asiatiche, ignare di progresso e voluttà, felici solo di un sorriso donato; quel sorriso stampato sulle labbra del Buddha, come sui volti di questa stirpe birmana, definita “il popolo più felice dell’Asia”. Un popolo aperto all’invadente ricerca del turista di quadri di vita lontani nel tempo, inerme nella sua semplicità e stupefatto di un così accanito interesse, come rivelano gli occhi increduli di bimbi che forse per la prima volta incrociano i nostri, provando altalenanti sentimenti di timore e di scoperta.

Una consapevole e voluta povertà è radicata nell’essenziale vita di questo popolo che contrasta con lo sfavillante luccichio dell’oro che ricopre a profusione templi e statue di Buddha, venerati e curati all’ossesso.

Quel Buddha che insegna la via della felicità imprimendo nel loro cuore una serena accettazione di una modalità di vita controllata, umile e remissiva, ma ricca di sani principi che aiutano a vivere nell’amore reciproco un’esistenza difficile, ma con forti valori da noi ormai dimenticati.

 

Yangon e la splendida Pagoda Shwedagon

Basta guardare l’affetto di un bimbo che sicuro conduce per mano l’anziano nonno dal passo incerto attraverso la miriade di statue di Buddha, stupa (tipica costruzione sacra) e templi dalle diverse fogge e lavorazioni che circonda l’immensa e stupefacente Pagoda Shwedagon che svetta alta su una collina, simbolo della capitale Yangon.

Cuore del Paese è la meta principale di tutti i birmani che anelano visitare almeno una volta nella vita.

Un rispettoso silenzio pervade questo luogo sacro, nonostante la moltitudine di gente, incantata dalla sfavillante sinfonia di ori e colori degli innumerevoli tempietti, piccole pagode, stupa e guglie di tutte le forme che creano una foresta di balze, nervature, pinnacoli riccamente decorati e scolpiti intorno all’immenso stupa centrale, che cattura gli sguardi con i suoi 100 metri d’altezza e gli oltre 700 chili d’oro che lo rivestono e che insieme a migliaia di pietre preziose lo fanno brillare ai raggi del sole, che al tramonto donano calde tonalità avvolgendo tutto e tutti in un’atmosfera irreale, di profondo misticismo. Lo spirito è totalmente rapito e più a contatto con il soprannaturale che impregna questo sito infondendo indicibili emozioni, intense ed indimenticabili.

                        I 2.000 templi di Bagan

Come l’affascinante Valle dei Templi di Bagan, a nord di Yangon, importante zona archeologica estesa per 40 kmq. con più di 2.000 templi, pagode e santuari di ogni dimensione e forma costruiti per custodire le reliquie del Buddha.   Questo favoloso complesso architettonico regala immagini da sogno e lascia esterrefatti  per l’abbondanza di antichi monumenti che si vedono a perdita d’occhio sino all’orizzonte dall’alto delle terrazze che li caratterizzano. Spuntano in ogni dove tra la vegetazione con la distintiva forma a campana ripresa dallo stupa della splendida Shwezigon Pagoda, ricchi di decorazioni e mille dettagli architettonici e stilistici che li differenziano, e custodi di stupefacenti affreschi che narrano la vita del Buddha.

Li scopri ancor più incontrandoli in percorsi poco battuti con una passeggiata su simpatici calessi che ti introducono silenziosamente in questo mondo fiabesco fatto di gloriose vestigia, che cambiano colore durante il giorno a seconda della luce procurando profonde sensazioni che ti conducono attraverso il tempo in istantanee ferme nel tempo.

Come l’eterno sguardo rassicurante di quei Buddha custoditi in ogni tempio, in posizioni simboliche e dimensioni diverse, alcuni veramente imponenti, venerati e pregati con riservata devozione. Impressionanti e splendidi quelli del celebre Tempio di Ananda, uno fra i più prestigiosi ed antichi.

I suoi 4 Buddha, costruiti in un unico blocco di legno di tek e rivestiti con foglia d’oro, risplendono nella penombra delle sue nicchie interne ed i loro volti spiccano con le stupefacenti e diverse espressioni dall’alto dei 10 metri di queste immense statue nell’insolita posizione eretta, che rappresenta il raggiungimento del nirvana.

Mentre ai piedi dell’altra splendida Pagoda Shwesandaw, che custodisce i capelli del Buddha, sorge l’interessante Shinbinthalyaung, lungo edificio al cui interno si può ammirare l’unico Buddha reclinato di Bagan, lungo 20 metri e di antica fattura (XI sec.).

Dall’alto dell’elevata Pagoda Shwesandaw si gode di un’impareggiabile vista, sul Tempio di Dhammayangyi, il più grande del sito, di un’eccellente finezza ed eleganza costruttiva e  dall’inconfondibile ed imponente forma piramidale che conferisce al monumento una certa aria di mistero, e sulla campagna circostante con belle scene di vita campestre da catturare in immagini che rimangono scolpite nei ricordi e che mutano col cambiare della luce, fino ad esaltarsi nei vividi colori del tramonto. Immagini uniche come quelle che immortalano il sapiente lavoro che si svolge nelle fabbriche di lacche, tipico artigianato della zona di Bagan.

E’ un’arte antica tramandata da padre in figlio, che impegna in un lungo ed attento lavoro. Ci vogliono anche mesi per eseguire magnifici oggetti: si parte dal legno di bambù che viene ricoperto da 7 strati di lacca, un latice raccolto incidendo la corteccia di un albero, gli esemplari di maggior pregio vengono poi decorati con foglia d’oro, gli altri incisi e colorati, o semplicemente dipinti, riproducendo spesso motivi ripresi dai templi, rappresentazioni floreali, o graziose scene di vita comune.

Quelle stesse scene e paesaggi che si incontrano attraversando il Paese lungo le impervie strade che lo collegano.

E’ come fare un percorso di conoscenza nella vita vera che si conduce lontano dalle caotiche città, in una campagna dura da lavorare, ancora con l’aratro trainato dai buoi, ma che dà sostentamento alle tribù che abitano gli sparuti villaggi di semplici capanne fatte di paglia intrecciata, circondate dagli utili animali e rallegrate dai festanti bimbi che giocano intorno alle loro madri intente a ravvivare il focolare. E tutt’intorno piantagioni di palme dalle quali si raccoglie il succo in orci appesi ai rami, per farne in seguito il tipico liquore tradizionale.

E si susseguono poi campi coltivati a verdure e verdi risaie dove lavorano in fila, chine e precise, le mondine, mentre su ampi spiazzi altre donne battono le messi per separare i preziosi semi. E porteranno i loro raccolti nei variopinti mercati, con le ceste a bilanciere tenute a spalla, luoghi di incontro delle varie etnie che si distinguono dai loro tipici costumi semplici e variopinti, mescolando i grandi cappelli svasati degli Intha con i coloratissimi asciugamani di spugna che le donne Shan avvolgono intorno alla testa.

La spirituale Mandalay

Mentre la monocromia del bordò cupo uniforma e contraddistingue i monaci buddisti che si incontrano per le vie, soprattutto nella zona di Mandalay, seconda città del Paese situata a 650 km. a nord di Yangon, dove si concentrano in maggior numero, intorno ai 70.000 nei 150 monasteri.

La “Città d’Oro” infatti costituisce il simbolo della fede buddista che le conferisce un fascino particolare.

Ed ecco allora i monaci mentre con le loro ciotole elemosinano il pasto quotidiano di famiglia in famiglia, per poi dividerlo in comunità.

E’ coinvolgente ed istruttivo poter assistere a questo significativo rito che si svolge ogni mattina nei monasteri, dove si radunano migliaia di monaci in silenziose ed ordinate file per ricevere la loro porzione di riso e consumarla in collettività nei vasti refettori, oranti e concentrati, per niente distolti dai curiosi visitatori che entrano prepotenti nella quiete dei loro semplici gesti quotidiani: dalle abluzioni giornaliere nei lavatoi comuni allo studio nella penombra degli ampi padiglioni, dalla complicata ed interessante vestizione dell’abito monastico al naturale offrire il di più del loro cibo ai più poveri che attendono l’elargizione di un sicuro pasto.

Quei pasti cucinati e consumati per di più lungo le affollate strade, che odorano di mille sentori, in improvvisati punti di ristoro che animano i marciapiedi gremiti di venditori delle più svariate mercanzie, fino alla semplice ma vitale acqua distribuita soprattutto alle fermate degli improbabili bus straripanti di gente che viaggia aggrappata o addirittura sul tetto dei colorati mezzi.

Questa vita all’aperto favorita dal clima caldo del Myanmar, posto a cavallo del tropico del cancro, procede tranquilla come il lento scorrere dell’arteria vitale che attraversa longitudinalmente tutto il Paese: il fiume Irrawaddy. Importante via di comunicazione e di trasporto delle più disparate merci, offre anche un eccellente punto di vista su sprazzi di vita vera navigando, placidamente catturati da idilliache atmosfere, con i battelli che collegano le varie località sorte lungo il suo corso.

La pagoda incompiuta

Come Mingun, una fra le antiche città reali, poco a nord di Mandalay, che in un piccolo sito racchiude tre grandi ricchezze degne di essere ammirate.

Già da lontano si può scorgere l’immensa sagoma della “pagoda incompiuta”, eretta per custodire il dente del Buddha donato dai cinesi, che secondo il re Bodowpaya doveva essere il più grande stupa della terra dovendo raggiungere i 153 metri, ma che per varie vicissitudini si è fermata ad un’altezza di circa 50; sempre impressionante e maestosa nella sua imponenza e austerità conferitale dall’incompiutezza stessa che ne lascia ammirare la sistematica e precisa sovrapposizione di milioni di mattoni impreziositi solo dalle 4 entrate sagomate che risaltano nel loro biancore sull’uniformità marrone del cotto, lacerato in più punti dal catastrofico terremoto del 1.838 che dimezzò anche la grandiosità dei due leoni posti a guardia dell’ingresso principale che dà sul fiume, lasciando a memoria solo le rovine dei loro enormi di dietro.

Poco oltre è posta invece l’intatta gigantesca campana, seconda per grandezza soltanto a quella di Mosca, ma che ha a suo vantaggio il fatto di essere ancora funzionante e di auspicare fortuna con i suoi rintocchi.

La terza magnificenza che si incontra è la candida Pagoda Mya Thein Tan a spirali che rappresentano il mitico Monte Meru, fatta costruire dal re Bagyidaw che la volle particolarmente bella per testimoniare la profondità del suo dolore alla morte dell’amata moglie Hsinbyume e per questo sagomata con forme morbide e sinuose a simboleggiare la femminilità, con bianche onde che degradano tutt’intorno come un ampio velo di sposa. Dall’alto di entrambe le pagode la vista spazia sull’incantevole scenario imperniato intorno allo scorrere lento del grande fiume, animato dagli abitanti locali, specialmente bambini, che si assiepano all’imbarcadero per accogliere ed accompagnare i turisti alla scoperta delle loro meraviglie fatte di mille oggetti artigianali che offrono come souvenir, e dai carri trainati da buoi messi a disposizione come inusuali ed originali taxi.

Altrettanto pittoreschi taxi non si può perdere l’occasione di provare tornando nella caotica città di Mandalay, veri trabiccoli ambulanti che riportano allegramente ai nostri anni ’50.

Sfigurando, se vuoi, dinanzi all’elegante albergo, confortevole come tutti, situato proprio di fronte al grande quadrilatero, di 1.600 metri di lato, con mura merlate scandite da torri di guardia, dell’immenso Palazzo Reale circondato da larghissimi fossati che purtroppo non hanno più molto da proteggere dopo il rogo avvenuto durante i bombardamenti dell’ultima guerra che bruciò del tutto questo patrimonio artistico mondiale.

Mentre ha saputo resistere alle ingiurie del tempo il favoloso Monastero Shwe Nandaw detto il “palazzo d’oro”, costruito completamente col duro e prezioso legno di tek, così familiare per i birmani, dato che questo Paese ne è il principale produttore ed esportatore mondiale, che può dare l’idea di quale fosse stata la magnificenza del Palazzo Reale, visto che in origine era uno dei suoi appartamenti, spostato nel 1.880 nell’attuale posizione dal figlio del re Mindon dopo la sua morte.

E’ tutto un elaborato intaglio di tetti merlettati, porte istoriate e pannelli a bassorilievi scolpiti e dorati che raffigurano le ultime 10 vite del Buddha; un vero e proprio capolavoro cesellato in tek.

Altra opera interamente in legno di tek, ma stilisticamente molto più semplice, è il Ponte di U Bein, il più lungo del mondo costruito con questo materiale, ben 1.200 metri. Sorge nella località di Amarapura, 13 km. a sud di Mandalay, che, detta la “città immortale”, fu una delle 4 capitali reali. Attraversa il Lago Taungthaman offrendo immagini di serenità assoluta: pescatori intenti a gettare le reti dalle loro precarie imbarcazioni, contadini che lavorano nei campi ancora con le antiche tecniche locali; e sullo sfondo le immancabili pagode dorate.

Quelle pagode che costellano il magnifico panorama delle colline di Sagaing e che caratterizzano tutto il paesaggio birmano; si scorgono ovunque: tra la vegetazione tropicale dagli splendidi alberi spruzzati di fiori variopinti, sui rilievi troneggiano alte e solitarie, o riunite insieme in un sito circoscritto creano una fitta giungla di guglie allineate che luccicano al sole.

  9.000 statue di Buddha…

Mentre la fitta selva di Buddha di diverse dimensioni, accalcati uno sull’altro, si raggruppa nella grande grotta a ridosso di una montagna che nel suo ventre ospita questa divinità moltiplicata per 9.000 e più esemplari, collocati dai fedeli nel corso dei secoli in un continuo pellegrinaggio di fervente spiritualità.

Ci si ritrova in uno scenario altamente suggestivo, ideale per la meditazione ed il raccoglimento, che avvolge il visitatore letteralmente attorniato da una miriade di statue devozionali che si innalzano fino a toccare la sagoma frastagliata delle stalattiti, che ricamano quest’antro così unico che suscita profonde e forti sensazioni.

Dall’alto del suo ingresso si gode di una veduta straordinaria che abbraccia l’ampia e tranquilla valle di Pindaya, cittadina posta a 1.183 metri sulla riva di un lago attorniato da montagne ammantate di boschi punteggiati di piccole pagode.

La sua popolazione, costituita dalla minoranza etnica Da Nu, è dedita alla rinomata fabbricazione artigianale dei parasoli, con telaio in legno tenero ed il rivestimento di carta shan ottenuta dalla lavorazione della corteccia di gelso, che viene usata anche con originali intrusioni di foglie e fiori colorati per rivestire lampade, album o abbellire la tavola.

Quei parasoli così vezzosi ed utili per ripararsi dai cocenti raggi che tentano di scurire i bei volti delle genti birmane che per proteggersi spalmano sul viso un impasto cretoso, creando anche particolari disegni che li contraddistinguono.

L’incanto del magico Lago Inle

Parasoli così comodi quando s’intraprende l’indimenticabile escursione sotto un limpido cielo azzurro sulle splendide acque del Lago Inle dal gradevole clima, situato nel centro del Paese a circa 900 metri di altitudine e contornato da dolci montagne verdeggianti.

Viene facilmente e caratteristicamente percorso a bordo delle tipiche imbarcazioni affusolate lungo l’interessante e magnifico tragitto che porta a visitare le principali attrattive di questo “piccolo lago” come significa il suo nome, su cui la tribù degli Intha “figli del lago” ha dato prova di grande ingegnosità adattandosi a vivere in villaggi su palafitte, sostentandosi con la pesca, effettuata con caratteristiche grandi nasse a forma conica e con la particolare coltivazione degli orti galleggianti, vero prodigio d’equilibrio, come il loro tipico modo di remane in piedi afferrando il remo con una gamba, tecnica che li ha resi famosi come unica etnia al mondo ad adottare questa singolare postura.

Si passa così attraverso questo modo di vita in continuo equilibrio, acquisito fin da piccolini, in bilico fra le case a palafitta, i giardini galleggianti che le circondano e le abbelliscono, le tipiche canoe ed i campi flottanti che con una coltura idroponica producono eccellenti primizie, verdure e fiori da vendere poi direttamente da barca a barca nei mercati sull’acqua.

Anche in questi villaggi lacustri non mancano le onnipresenti pagode, qui a palafitta naturalmente, come la più grande e venerata Pagoda Phaung-Daw U che custodisce 5 piccole statue di Buddha, irriconoscibili tanto sono stati ricoperti da sovrapposizioni di foglie d’oro da parte dei fedeli.

Queste sagome informi vengono portate in processione sul lago durante la grande ed affascinante festa sull’acqua degli Intha, uno degli spettacoli più belli, armoniosi ed originali composto da decine di piroghe tradizionali in tek guidate da giovani Intha con lo stesso costume tradizionale e nella stessa tipica posizione in piedi remando ritmicamente all’unisono con una sola gamba. Guida il corteo la chiatta reale raffigurante il Karaweik, l’uccello dorato della mitologia birmana, che conduce le immagini sacre del Buddha di villaggio in villaggio. Un’altra attrattiva veramente originale del Lago Inle è il Monastero di Nga Phe Chaung, il celebre “monastero dei gatti saltanti”.

Sorge isolato, ma è meta oltre che per i fedeli, anche per curiosi che vogliono ammirare questi straordinari gatti che saltano attraverso un cerchio su comando del monaco addestratore.

E’ bello dopo un’intensa e magnifica giornata ritirarsi nella propria accogliente camera d’albergo, soprattutto se questa è un singolare bungalow a mo’ di palafitta direttamente sul lago, lontano dai rumori, immersi solo nella quiete della natura lacustre che ti fa compagnia con i suoi richiami notturni, attorniato da un idilliaco paesaggio che emana un’infinita poesia.

Ed è anche più bello destarsi col primo raggio di sole di un’alba dorata che tinge man mano tutto di rosa. E sei pronto e vorace di nuove avventure e scoperte, come quella inaspettata dell’incontro con le schive “donne-giraffa”, appartenenti all’isolata tribù Padaung che abbellisce le sue donne con dorate collane a spirale che allungano a dismisura il loro collo ed adornano anche braccia, gambe e caviglie, sui tipici e colorati costumi che ravvivano il tondo viso incorniciato da un caratteristico caschetto corvino.

E non manca poi la lavorazione dei cheerot, sigari fumati abitualmente da uomini e donne, confezionati in una piccola fabbrica familiare sempre su palafitte da esperte mani di ragazze che con gesti metodici avvolgono il tabacco in grandi foglie di mais, ottenendo una forma cilindrica perfetta. Mani esperte come quelle che scorrono sicure su rudimentali telai di legno, ma che producono splendidi fini tessuti confezionati poi in lineari ma eleganti abiti che vestono le naturalmente gentili figure di donne birmane.

Mani dall’incredibile maestria che muovono veloci i fili delle tipiche marionette in legno riccamente vestite che in folkloristici spettacoli allietano le cene dei turisti, deliziati dai diversi e contrastanti sapori della cucina birmana che unisce l’agrodolce allo speziato ed al piccante in una varietà di pietanze ricche di insoliti piatti di verdure miste, parecchie varietà di legumi, unite a più tipi di carne insieme all’immancabile riso e culminanti nei deliziosi dolci e colorati frutti tropicali.

Alimenti che vengono trasportati via fiume e giungono nei trafficati porti, come quello fluviale di Yangon dove gli scaricatori in fila come tante formichine portano a terra tonnellate di sacchi di derrate, che verranno vendute e cucinate anche sugli improvvisati banchetti lungo le pittoresche stradine della chinatown di Yangon, invase da una sfilza di venditori ambulanti di cibo e bancarelle straripanti dei più diversi prodotti.

Di nuovo a Yangon

Questa città per niente monotona costituita da un incredibile mosaico di quartieri e atmosfere: dai più popolari, variopinti e brulicanti di gente, ai coloniali di britannica memoria, ai più verdi della Golden Valley dove spicca appena qualche grattacielo tra le case di tek sperdute dentro la fitta vegetazione tropicale, che si allarga poi negli ampi spazi verdi dei parchi che si estendono intorno ai Laghi Inya e Kandawgyi.

Fra quest’ultimo e il Royal Lake sorge una delle tante pagode della capitale, la Pagoda Chauzkhtakyi dove ci si stupisce dinanzi alle immense dimensioni di uno dei più grandi Buddha reclinati del Myanmar.

Misura infatti 70 metri, ma infonde un senso di pace con il suo sguardo pacato e rassicurante, mentre mostra i 108 precetti sotto l’enorme pianta dei suoi piedi, segni distintivi del vero Buddha.

Questi colossali ed innumerevoli monumenti simboleggiano la filosofia di vita di queste genti per le quali le ricchezze degne di interesse sono di carattere puramente spirituale, e con il poco che possiedono conservano solo il gusto di moltiplicare templi, pagode e Buddha.

La dolcezza che emana dall’espressione del Buddha accomuna tutti i birmani, che passano così l’esistenza terrena ad accumulare meriti al fine di ottenere la migliore reincarnazione possibile.

Ma la loro mitezza ha fatto sì che è stata perpetrata su di loro una dura oppressione da parte di un regime militare che li fa vivere in una sorta di limbo, all’oscuro del progresso e nel timore continuo, ma nell’ordine e nella sicurezza, magra consolazione! Ma fra questo popolo aleggia un mormorio sommesso di ritrovata consapevolezza delle proprie condizioni, quasi impercettibile, ma che si spera cresca pian piano e scuota l’orgoglio nazionale per un futuro di democrazia e di benessere comunitario.

Per un Myanmar che possa al fine palesemente far risplendere il suo immenso sorriso straripante d’amore e ridonare alla sua gente la gioia di vivere pienamente e di non essere più soggiogata, ma libera di far battere il suo grande cuore, ricco di buoni sentimenti, semplici ma universali che conquistano chiunque le si accosti, rimanendone contagiato per sempre.