Il 18 maggio scorso l’Ente Nazionale dell’Aviazione Civile ha presentato lo  studio “Evoluzione del traffico low cost a livello europeo e nazionale” realizzato dalla Kpmg su commissione della stessa ENAC. Nel comunicato stampa che ha accompagnato la presentazione si può leggere una importante considerazione (il neretto è nostro): “ I vettori low cost, in Europa come in Italia, hanno contribuito con il loro flusso di passeggeri ad un aumento del traffico aereo e a una variazione sull’economia del territorio.

L’aeroporto e le attività ed esso collegate, generano valore sia come attività economica capace di incrementare domanda di lavoro, di beni e servizi, sia come infrastruttura di trasporto in grado di consentire collegamenti rapidi per i residenti dei bacini di utenza, per i viaggiatori business e per i turisti. Restano, tuttavia, da valutare le effettive ricadute economiche sui gestori aeroportuali che, in determinati casi, nonostante l’aumento del numero dei passeggeri, denunciano deficit di bilancio.”

In quest’ultima affermazione sono compendiati tutti i dubbi che accompagnano da sempre il fenomeno low cost. Un fenomeno che sulla carta potrebbe apparire come il toccasana di tanti problemi locali e aeroportuali, il quale tuttavia va valutato con estrema ponderatezza.

Il fenomeno presenta uno dei suoi maggiori punti di attrazione nel particolare che al contrario di quanto avevano fatto nel passato i vettori tradizionali, esso ha puntato le sue attenzioni sui centri aeroportuali “secondari”.

La strategia che da sempre aveva caratterizzato i vettori full service (FSC), di qualsiasi Paese, vedeva privilegiare sempre e soltanto i maggiori poli aeronautici. Ad esempio quando un vettore europeo o extracontinentale doveva aprire servizi con l’Italia la scelta obbligata era sempre Roma, qualche volta Milano, ma oltre non si andava.

Stessa cosa accadeva in tutti gli altri Paesi. La nascita di vettori internazionali i quali anziché puntare sui “soliti” poli principali, indirizzavano le loro attenzioni a aeroporti periferici non poteva non provocare un terremoto nello stagnante mondo delle compagnie aeree tradizionali.  

E a questo punto già si pone una prima questione: questo avvio di traffico generato da nuovi collegamenti che prima, nella migliore delle ipotesi, transitavano in coincidenza per i principali scali del Paese, si deve intendere a sottrazione, o in aggiunta a quest’ultimo?

Lo studio Enac fa notare che a livello  mondiale nel 2004 le compagnie regolari (FSC) offrivano l’87% dei posti contro il 13% delle LCC, e che questo rapporto nel 2009 era diventato 78/22, ma il dilemma è lungi dall’essere risolto. Verosimilmente la corretta risposta giace su entrambi i fronti ovvero che parte del traffico generato è aggiuntivo, e parte si deve intendere sottratto alle FSC.

Lo studio evidenzia altresì come l’Europa sia stato il continente che nel decennio 2000/2009 abbia registrato il più alto numero di vettori low cost nati (75) ma allo stesso tempo sia anche la regione con il più alto numero di scomparsi (34), sicchè in chiusura del 2009 l’area che vanta il maggior numero di vettori LCC risulta essere l’Asia con 45 vettori LCC operativi.  Su questo specifico tema va posta una seconda questione:  quanti dei 41 vettori LCC europei operativi al dicembre 2009 sono veramente vettori low cost?

La capacità di riuscire a discernere la “pura” low cost dai vettori ibridi, non è una questione di facile soluzione. Ed oggi se a bruciapelo venisse posta la domanda quali vettori europei low cost conosce?  la maggior parte degli intervistati risponderebbe con due soli nomi: EasyJet e Ryanair.

Lo stesso survey dell’Enac (pag.10) riporta quali “tre vettori leader” accanto a Ryanair e EasyJet anche AirBerlin la quale però non è propriamente un vettore LCC, e infatti più avanti (pag 18) lo stesso studio precisa che l’eterogeneità di tipologie di offerta testimonia la coesistenza del modello LCC puro e LCC ibrido.

Ma indubbiamente questa presa d’atto che non vi è un solo modello di LCC, complica qualsiasi comparazione che abbia come obiettivo quello di indagare sul fenomeno stesso spingendosi poi a comparazioni con il modello che viene definito “classico”.

Ormai è venuta meno la focalizzazione su aeroporti secondari (caso easyJet/Malpensa, o terminal dedicati LCC su Schiphol), così come non sembra più un tabù la standardizzazione flotta (dopo l’acquisizione di AirTran da parte di Southwest, la flotta di quest’ultima vedrà in linea accanto ai tradizionali B737 anche una novantina di Boeing 717) mentre -come ben sappiamo- le compagnie FSC continuano a far proliferare le charges per servizi ancillary (una volta gratis).  

E’ indubbio che in questo frullato di novità sarà sempre più difficile distinguere un vettore low cost da un vettore Full Service. Quindi tanto vale mettersi l’anima in pace  ed evitare di considerare i vettori LCC come un mondo “a parte” distinto dai vettori tradizionali.

La seconda parte dello studio Enac prende in esame l’impatto del traffico low cost dapprima sul sistema aeroportuale e successivamente sul territorio. Allo scopo  è stata condotta una analisi su 5 scali italiani di cui però non viene svelata l’identità.

E’ stato considerato il quinquennio 2005/2009 ed è stato osservato che sommando i volumi dei cinque aeroporti il numero passeggeri è salito complessivamente con una media annua dell’1 per cento.  

Ma mentre, nello stesso periodo,  il numero passeggeri delle FSC è calato del 10% quello delle LCC è aumentato del 44% ; questo fatto, avverte il survey, “ha portato gli aeroporti a cercare delle soluzioni volte a garantire il sostentamento della domanda complessiva che nella maggioranza dei casi è stata garantita proprio mediante i vettori LCC”.

Con quali strumenti gli aeroporti sono riusciti a garantire il sostentamento della domanda?  Lo studio individua uno strumento in particolare usato per lo scopo: gli accordi di marketing, ovvero “sfruttando la maggiore capacità del vettore ad effettuare campagne di marketing di tratta, l’aeroporto riconosce, a valle del raggiungimento di target di volume, un “contributo” definito contrattualmente.”  

Ma se questo punto, tutto sommato, era alquanto scontato decisamente più interessante quanto descritto nella sintesi degli effetti riscontrati (pag 25), laddove si precisa che “dal confronto relativo agli effetti complessivi sulla gestione operativa, emerge una prevalente stabilità dell’EBITDA ma con un peggioramento della redditività per passeggero”; ricordiamo che con il termine di EBITDA (Earning Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization) si intende il margine operativo lordo.  

Ancora, per quanto riguarda gli effetti sugli aeroporti lo studio ravvede la necessità di gestire una accresciuta complessità manageriale con contestuale necessità di ottimizzare i processi operativi e di assicurare l’incremento dell’incidenza dei ricavi commerciali.

L’ultima parte del survey riguarda l’impatto che le Low Cost hanno sul territorio, o più precisamente analizza l’effetto che i passeggeri movimentati dalle LCC generano sul territorio.

A tal proposito lo studio determina che la spesa diretta equivale a 11 volte i ricavi aeronautici LCC, mentre l’ulteriore PIL attivato si aggira a 9 volte i ricavi aeronautici LCC.

Volendo tirare le somme, lo studio conferma quanto già ben noto e cioè che laddove si genera un flusso turistico, indubbiamente  strutture ricettive e strutture collegate ne traggono un indubbio beneficio economico, ma val la pena però annotare un paradosso del sistema.

Più volte, comparando i risultati delle compagnie aeree con quelli delle società di gestione aeroportuali ci siamo permessi di sottolineare come fosse paradossale che facevano più utili gli aeroporti che erano un servizio corollario al mondo del trasporto aereo che non i vettori stessi.

Lo studio dell’Enac svela ora che dall’attivazione di collegamenti su aeroporti tramite vettori low cost, ne trae più vantaggi economici il territorio che non gli aeroporti che pure rappresentano il passaggio obbligato per l’ingresso delle low cost sul territorio stesso: davvero viene spontaneo annotare come l’industria del trasporto aereo finisca per privilegiare non tanto gli attori principali quanto piuttosto gli ultimi anelli della catena di produzione.

Un’altra considerazione di carattere generale va pure avanzata. Laddove l’Italia viene comparata con Spagna, Germania, Inghilterra e Francia (pag. 16, “Focus sul traffico low cost nei principali paesi europei”) andrebbe ricordato che al contrario di questi paesi che hanno tutti un vettore nazionale in forte espansione, da noi il vettore principale è da tempo in ritirata, e ciò non può non falsare i dati di comparazione sull’incidenza che hanno le low cost –che sono per la stragrande maggioranza straniere- sul nostro mercato rispetto agli altri.

 Antonio Bordoni