“Ma lo staff Ryanair di Bergamo se ha il mal di denti prende l’aereo e si va a curare a Dublino, o usufruisce del nostro SSN?” Sinceramente siamo rimasti non poco sorpresi nel leggere domande di questo tenore nell’ambito di articoli riportati su quotidiani nazionali circa la vicenda di quella che fra l’altro non costituisce neppure la prima indagine in Italia su Ryanair e ciò che questa compagnia è tenuta  a ottemperare nel nostro Paese in termini di norme contributive e fiscali. La sorpresa era poi amplificata dal fatto che simili domande venivano espresse anche dalla stampa finanziaria-economica, quella cioè che solitamente  accompagna i suoi articoli riportando precise norme legislative con tanto di numero di legge e relativo comma di riferimento.  Non ci si stupisca della nostra sorpresa ma si rifletta piuttosto sul particolare che se siamo ancora al punto di proporre simili domande, vuol dire proprio che l’argomento è lungi dall’essere concluso e rischia di avvitarsi su se stesso divenendo uno dei tanti tormentoni all’italiana; detto in parole più chiare prepariamoci a uno stillicidio di notizie periodico di cui sarà ben difficile scrivere la parola “fine”, almeno a breve termine.

E’ nostra impressione che se la società sotto indagine non si fosse chiamata Ryanair, se fosse stata di dimensioni ben più modeste, se non avesse cioè permesso a non pochi nostri scali nazionali di poter rimanere aperti grazie ad essa, o comunque di aver permesso un incremento notevole nel numero passeggeri, ebbene –ripetiamo- è nostra modesta impressione che da tempo saremmo già giunti ad una conclusione acclarata, sia essa positiva o negativa.

La necessità di giungere ad una conclusione definitiva non è dettata solo dall’ovvio rispetto di norme che evidentemente debbono essere uguali per tutti i soggetti, ma anche perché finalmente giungeremmo a determinare se veramente le basse tariffe applicate dalla compagnia irlandese, talmente basse che essa ogni anno pubblica la graduatoria in cui figura sempre al primo posto, derivano anche da queste disapplicazioni delle norme, o meno.

Di fatto, ammettendo una parità di salario netto di 100 pagato ad un dipendente, il pensare che una società italiana deve poi, entro il 16 del mese successivo, versare un importo aggiuntivo di “50”   fra Inps, Irpef ed altro, mentre una compagnia irlandese esborsa 100+20, pone un problema di dislivello notevole che non può non favorire la seconda e “danneggiare” la prima.  Crediamo che i lettori abbiano ormai capito che il cuore del problema infatti non è sul costo-salario elargito ai dipendenti, quanto sul differente regime contributivo/assistenziale e fiscale che grava a carico dell’azienda in aggiunta a quanto corrisposto ai dipendenti. Il dipendente lavora “in Italia”?  Bene, il costo per l’azienda è 100+50 ; il dipendente lavora “in Irlanda” ? Allora il costo per l’imprenditore è 100+20.

Quanto tempo occorrerà ancora per chiarire quale delle due interpretazioni è quella corretta ? Ricordiamo che nell’anno 2010 l’indagine fu avviata per un’altra base italiana, mentre quest’anno è venuta alla ribalta quella di Bergamo accompagnata esattamente dagli stessi dubbi, perplessità e punti interrogativi già espressi nel corso della prima indagine e, a quel che è dato sapere, non giunti ad alcun un punto fermo.

 

In un nostro precedente intervento apparso su queste colonne in data 16 febbraio scorso, dopo aver parlato di stabile organizzazione, di voli domestici e non,  abbiamo ricordato le norme del Regolamento CE n. 988 del 16/9/2009 le quali precisano che il distacco all’estero  rappresenta una eccezione a tempo limitato alla norma generale secondo cui un lavoratore deve essere assicurato nel paese in cui svolge la propria attività lavorativa.  Orbene fintanto che una aerolinea fa “toccata e fuga” su un nostro aeroporto, la mancanza del requisito della stabile organizzazione potrebbe anche essere sostenuta con logica, ma nel momento in cui l’aerolinea apre una cosiddetta “base” in un nostro aeroporto, sostenere la tesi che anche in questo caso i dipendenti debbono considerarsi irlandesi perché hanno firmato il contratto a Dublino diventa sinceramente insostenibile.

Su tutta questa vicenda sembra aleggiare il fantasma di Marsiglia.  Allorchè in Francia Ryanair è stata invitata a considerare francesi i dipendenti che operavano sullo scalo di Marsiglia, la compagnia non ci ha pensato due volte, ha fatto i bagagli e spostato la base altrove. Che sia questo il motivo per cui è così difficile mettere la parola fine, in un verso o nell’altro, in questa vicenda italiana? Se la risposta fosse affermativa allora è inutile scomodare i dentisti.

 

Antonio Bordoni