di Antonio Bordoni.
Quanto è corretto il teorema mainstream che continuiamo a leggere sul futuro di Alitalia?
Ci riferiamo alle ripetute affermazioni secondo le quali una Alitalia italiana significa gravare sulle tasche dei contribuenti, in una Alitalia straniera invece i cittadini non saranno chiamati all’ennesimo sacrificio, per cui non bisogna assolutamente insistere con questa storia che Alitalia deve rimanere italiana. A corredo del teorema proposto, immancabili appaiono cifre da brivido: 17,4 miliardi di euro buttati al vento in 42 anni, di cui circa 10 in contributi indiretti e ammortizzatori e altri 7 in denaro contante elargito dallo Stato, i 900 milioni di euro di prestito che devono essere restituiti….eccetera.
Tutto corretto, nulla da eccepire sulle cifre del disastro Alitalia fin qui perpetrato, ma qualcuno dovrebbe andare oltre il copia/incolla di circolanti opinioni. Va analizzato cosa sta accadendo nel mondo dell’aviazione civile e soprattutto avere il coraggio di affermare che se una compagnia aerea perde soldi non è perché è di una certa nazionalità invece di un’altra, ma semplicemente perché ai suoi vertici vi è un management incapace. E chi può affermare che non vi siano italiani capaci di guidare una azienda al successo?
Il teorema circolante avrebbe in effetti un suo fondamento se il mercato Italia fosse una zucca sciapa e insignificante da cui non è possibile ricavare traffico sufficiente per sostenere i conti di una aerolinea, ma i 36 milioni di passeggeri da/per l’Italia trasportati da Ryanair lo scorso anno dimostrano esattamente il contrario, così come dimostra il contrario il numero sempre crescente di passeggeri che transitano sui nostri scali.
Ragionandoci sopra si deve ammettere che insistere sempre sul concetto che una Alitalia italiana significherebbe solo buttare al vento altri soldi, vuol dire accettare a priori la tesi che in Italia non vi sono personaggi capaci di gestire al meglio una aerolinea: siamo certi che una tale impostazione sia corretta? A ben vedere sull’intera vicenda la domanda che nessuno sembra essersi posto è la seguente:
Se Alitalia fino ad oggi ha perso soldi è perché è rimasta italiana?
Guardiamoci intorno: i portoghesi sono capaci di far chiudere i bilanci della loro compagnia nazionale TAP in nero, i greci sono stati capaci di rilanciare dalle ceneri di Olympic una compagnia, la Aegean che chiude anch’essa i bilanci in utile, per non parlare poi di tutte le altre major europee di successo nessuna delle quali risulta condotta da personaggi stranieri. Allora dobbiamo concludere che tutti gli altri dispongono di persone capaci, e noi soli siamo quelli che non li abbiamo?
Ma non sarà invece che tutti gli altri hanno messo ai vertici della loro aerolinea personaggi che conoscevano il mercato dell’airline business, e noi ci siamo rovinati nominando il più delle volte personaggi che non avevano alcun background di questa industria? (1)
E poi altra domanda su cui invitiamo a riflettere:
Chi assicura che un investitore straniero sia davvero in grado di riportarla in utile?
I fautori del teorema mainstream non possono fingere di ignorare esperienze e risultati di Alitalia allorchè una compagnia straniera di grido ha acquisito il 49 per cento del suo capitale, leggasi Etihad. Ora ci si diverte a raccontare tutti i difetti possibili e immaginabili sulla compagnia di Abu Dhabi ma, a parte il fatto che ad accordo firmato gli elogi si sprecavano, l’esperienza da poco trascorsa dovrebbe perlomeno far riflettere sul particolare che non è affatto scontato che l’acquisizione straniera significhi far uscire automaticamente Alitalia dal pantano in cui si trova.
Allora diciamola tutta fino in fondo: in un mondo dai cieli aperti hanno senz’altro ragione coloro che dicono che gli italiani volerebbero lo stesso anche se Alitalia fallisse domani, ma è tutta da dimostrare la teoria di coloro che affermano che solo con lo straniero l’Alitalia può tornare a far soldi.
(1) Nella nostra Newsletter del 19 aprile scorso (“Alitalia in perenne circuito di attesa”) abbiamo fatto nome e cognomi dei manager che dirigono le principali compagnie di bandiera di successo mettendo in risalto la loro provenienza dalla gavetta del settore.
Tratto da www.aviation-industry-news.com