di Antonio Bordoni.

 

L’Italia non può fare a meno di un vettore nazionale di riferimento che assicuri il mantenimento dei collegamenti aerei: quando abbiamo inteso in questi giorni i nostri politici affermare una simile frase, il vecchio dilemma se le aerolinee possano considerarsi imprese di pubblica utilità non poteva non riaffacciarsi alla nostra mente.

Una società di pubblica utilità è una impresa che svolge un pubblico servizio.  Solitamente i servizi di pubblica utilità sono soggetti a forme di controllo governativo e con un raggio di attività che spazia dai gruppi che forniscono servizi alle comunità locali fino a giungere ai monopoli governativi per l’offerta di servizi in tutto lo stato.  Di fatto, da quando nel mondo si sono venute affermando deregolamentazione, concorrenza e globalizzazione  il concetto di  pubblica utilità è venuto assumendo contorni sfumati ed assai controversi.

Di certo nel dopoguerra e fino agli anni settanta/ottanta, ovvero prima che negli Usa e poi in Europa, venissero varate le rispettive deregolamentazioni, non vi era dubbio che le compagnie aeree venissero considerate  imprese di utilità pubblica.

Era imperativo per ogni nazione avere una propria compagnia aerea che la rappresentasse in tutto il mondo, non a caso le aerolinee venivano considerate in quegli anni le ambasciatrici dello Stato all’estero.  Sul chiudersi degli anni settanta, nell’ambito degli studi sull’avvio della deregulation, gli economisti hanno svolto un certosino lavoro per verificare se sussistesse l’aspetto della pubblica utilità ed inoltre se esse potessero considerarsi monopoli naturali.

Al termine si raggiunse un consenso sul fatto che le compagnie aeree non rientravano in tali fattispecie e fu anche in base a ciò che venne varata la deregolamentazione. (1)

Da quel momento in poi cessavano  legami e protezioni governative ed ogni vettore avrebbe dovuto cavarsela da solo.

Oggi con l’emergenza epidemiologica in atto,  sentiamo parlare di aiuti che i governi intendono dare alle aerolinee ed è perlomeno opportuno riproporre la questione. In Italia poi ci troviamo in una posizione tutta particolare, quasi da punto mondiale di riferimento su tale aspetto.

Infatti  se teniamo conto dei ripetuti esborsi che lo Stato per oltre vent’anni ha elargito per tenere in volo il suo ex vettore di bandiera, oltre a non trovare alcuna altra nazione che è stata capace di fare altrettanto, potremmo ritenere  che per i governi italiani in carica in questi ultimi anni  l’Alitalia è stata sempre ritenuta una public utility.

Una tale considerazione va presa tuttavia più come una provocazione che non come tangibile verità. Infatti, come tutti sappiamo, sarebbe più corretto asserire che gli esborsi sono stati fatti per ben altri scopi (elettorali, occupazionali, ecc) ma non certo perchè il vettore veniva ritenuto essere una public utility.  A prescindere, è comunque un dato di fatto che in questo periodo di  emergenza sanitaria il problema di quanto sia essenziale disporre di un proprio vettore nazionale è tornato prepotentemente alla ribalta.

Ma nell’odierno mondo deregolamentato ha ancora senso parlare di vettore di bandiera inteso come impresa che svolge un servizio di pubblica utilità? Questa domanda può solleticare dibattiti infiniti. In Italia, ad esempio, il vettore aereo che muove più passeggeri di ogni altro è l’irlandese Ryanair la quale è riuscita a trarre grandi vantaggi dalle aperture del mercato unico europeo, tuttavia tornando all’emergenza Covid19, quando ci sono da rimpatriare cittadini italiani bloccati in varie parti del mondo, il nostro governo non può certo chiedere e pretendere che Ryanair, o qualsivoglia vettore straniero, venga comandato a riportarli in Italia.

Una tale richiesta con sottointesa imposizione d’obbligo può essere indirizzata solo ad un vettore nazionale.

D’altra parte è pur vero che i casi di emergenza sono eventi piuttosto rari, tali da non giustificare  il mantenimento di un vettore di bandiera per far fronte a sporadiche necessità. Quando necessario, ogni paese potrebbe sempre ricorrere agli aeromobili dell’aeronautica militare per svolgere tali compiti.

A deregulation avviata comunque,  e con le compagnie di bandiera che non erano più tali, ci si è resi conto che alcuni collegamenti dovevano necessariamente essere mantenuti anche se essi non erano redditizi.

Quando sentite parlare di continuità territoriale oppure di oneri di servizio pubblico ci si riferisce proprio ai sussidi che le compagnie aeree ricevono per mantenere attivi determinati collegamenti essenziali per i movimenti dei cittadini all’interno di una nazione.

Anche negli Stati Uniti, patria della deregulation, è tuttora in vigore l’Essential Air Service (EAS)  un programma del governo  emanato per garantire che le piccole comunità presenti sul territorio, servite da compagnie aeree certificate prima della deregolamentazione del 1978, potessero continuare a disporre di servizi che assicurassero un livello minimo di collegamenti aerei. (2)

C’è chi ricorda come nel passato, sotto regolamentazione, le compagnie aeree si sono permesse decisioni alquanto rischiose sugli investimenti di capitale. Howard Hughes della TWA si  rifiutò di acquistare i jet, riportando la sua compagnia aerea indietro di diversi anni dal punto di vista tecnologico e, forse, rovinandola al momento dell’avvio della deregolamentazione.

Juan Trippe della Pan Am e il suo successore, Najeeb Halaby, hanno voluto tenacemente il modello ad alta capacità, il Boeing 747, un investimento che ha quasi mandato in bancarotta non solo la Pan Am ma anche altre compagnie a causa dell’eccesso di offerta immesso sul mercato: non certo un esempio di investimento prudente, né tanto meno esempio di utilità pubblica.

Oltre agli errati investimenti fatti da vettori regolamentati, i fautori della deregolamentazione ricordano come le compagnie aeree hanno inoltre utilizzato le loro posizioni protette per offrire vantaggi eccezionali ai loro dipendenti, obblighi contrattuali che poi li hanno messi in  posizione di svantaggio rispetto ai nuovi concorrenti apparsi nel mercato deregolamentato.

Questa è la ragione  per cui molte compagnie aeree hanno sofferto finanziariamente negli anni ’80 e ’90. Tutti motivi insomma che hanno giocato a favore di chi insisteva nell’affermare che le compagnie aeree non potessero vantare il titolo di pubblica utilità né tanto meno la caratteristica del “monopolio naturale”. (3)

Circa  quest’ultimo aspetto, vi è un aspetto interessante che val la pena approfondire. Alcuni componenti della filiera dell’industria aerea possono senz’altro venir classificati monopoli naturali e, come tali, per loro è improponibile applicare deregulation e concorrenza.

Esempio eclatante di monopoly providers sono gli enti di controllo del traffico aereo per i quali è impensabile creare più enti in concorrenza fra loro. Più variegata invece la situazione aeroportuale. Se in un dato territorio vi è un solo aeroporto questo indubbiamente avrà la caratteristica del monopolio naturale.

Ma le aree con più aeroporti presenti sul territorio, come Londra, New York, Parigi…se concessi a differenti operatori potrebbero offrire alle compagnie aeree concorrenzialità in servizi e tariffe.  La BAA, British Airport Authority, proprietaria/gestore dei tre maggiori aeroporti londinesi, è stata creata come una sorta di utility privata con notevole potere di mercato, perché si è ritenuto che solo una struttura di questo tipo sia in grado di consentire sufficienti investimenti in infrastrutture. (4)

Il fatto però che le compagnie aeree operano in un clima deregolamentato mentre due loro essenziali providers si trovano invece a godere della posizione di monopolio naturale è un elemento di notevole disturbo per le loro finanze.

Indubbiamente la discussione sulle public utility è molto complessa, variegata e di fatto si sovrappone al problema da sempre discusso di quanto sia opportuno che lo Stato rinunci a controllare settori sensibili aprendo gli stessi ai privati in nome del mito imperante sulla “concorrenzialità”.

Valutando la politica seguita dallo Stato italiano nei confronti di Alitalia si potrebbe essere tentati di affermare che la compagnia aerea è stata sempre vista come una public utility e ciò, in un certo qual modo, dovrebbe costituire motivo di merito per i nostri governanti, peccato che questo termine non sia mai stato pronunciato da alcuno e che in sua vece  sia stato proposto solo e sempre il problema occupazionale il quale a sua volta tornava alla ribalta in clima elettorale.

 

 

  • L’Airline Deregulation Act è una legge federale degli Stati Uniti del 1978 che ha deregolamentato l’industria aerea negli Stati Uniti, eliminando il controllo del governo federale su aree quali le tariffe, le rotte e l’ingresso sul mercato di nuove compagnie aeree. Ha introdotto un libero mercato nell’industria delle compagnie aeree commerciali e ha portato a un grande aumento del numero di voli, a una diminuzione delle tariffe, a un aumento del numero di passeggeri e delle miglia volate e a un consolidamento dei vettori.
  • Il programma è codificato al 49 U.S.C. §§ 41731-41748 ; lo scopo era quello di non isolare le “rural communities”.
  • Si definisce monopolionaturale una configurazione industriale in cui il numero ottimale di imprese presenti sul mercato è uno. Il monopolio naturale si manifesta quando nell’intorno del volume di produzione domandato dal mercato, la funzione di costo è subadditiva. Ciò significa che i costi sostenuti da una sola impresa nel produrre l’intera quantità domandata sono inferiori a quelli che sosterrebbero due o più imprese contemporaneamente presenti sul mercato.
  • Secondo non pochi osservatori in realtà, la proprietà comune della BAA in un ambiente che poteva essere competitivo, ha ritardato gli investimenti.

 

Tratto da www.aviation-industry-news.com