Il TFR era un bonus che il lavoratore incassava ogni qualvolta terminava un capitolo lavorativo, in aggiunta alla pensione che egli avrebbe percepito in ogni caso, ora lo stesso viene usato per sussidiare quest’ultimo istituto…
Allorché molti anni addietro ci interrogavamo sulla necessità del contributo obbligatorio pensionistico sia a carico dei lavoratori, come della più sostanziosa quota a carico dei datori, la risposta che puntualmente ottenevamo era più o meno del seguente tenore: lo Stato vuol essere certo che quando un cittadino smette di lavorare e quindi non ha più stipendio, abbia di che vivere, e non sia a carico della collettività.
La nostra idea fissa era stata sempre quella di non comprendere il motivo per cui un datore di lavoro che deve pagare i propri dipendenti per l’opera prestata durante l’attività lavorativa, si doveva assumere l’onere di sborsare una notevole somma mensile per assicurare la vecchiaia del lavoratore, ossia in un periodo in cui egli non sarebbe più risultato alle sue dipendenze. In commercio dopotutto vi sono sempre state ottime polizze assicurative, al limite sarebbe bastato che il lavoratore ne sottoscriveva una, la mostrava al datore e il problema era risolto.
E badate bene che quando ci ponevamo queste domande i soldi che i lavoratori e le aziende versavano all’Inps non servivano ancora a pagare nessuna pensione, in quanto eravamo ben lontani dalla prima ondata di pensionati che più o meno si è affacciata sulla scena in tempi successivi.
Presentammo pure un quesito all’Autorità Antitrust chiedendo quanto fosse giusto che dipendenti e datori fossero obbligati a sottoscrivere forzatamente una forma pensionistica “di Stato”.  Per quale motivo – ci chiedevamo – non si lascia libero il cittadino di scegliersi la polizza pensionistica in base al libero mercato delle assicurazioni?
Anche in questo caso, nessuna soddisfazione. La risposta che ci pervenne, in poche righe, spiegava che la materia pensionistica esulava dai compiti dell’Autorità per la tutela concorrenziale, punto a capo.
Ebbene quanto sta accadendo ai nostri giorni sulla questione TFR / Fondi pensionistici ha fatto riaffiorare alla mente questi ricordi e ci ha fatto pure capire che tutto sommato i nostri dubbi passati sul funzionamento dell’intero sistema non erano affatto esagerati.
Trascorsi gli anni dei soli versamenti, ossia dell’Inps che incassava ma non pagava pensioni, si è proposto il problema di dover iniziare a pagare tutti i pensionati che man mano raggiungevano la fatidica data per entrare in pensione, e poiché nel frattempo i pensionati invece di passare a miglior vita nel giro di pochi mesi, come solitamente avveniva fino a 20-30 anni orsono, essi rimanevano su questa terra ancora diversi anni, per l’Inps sono iniziati i problemi di cassa.
Va ribadito però a chiare lettere che questa situazione, ovvero il fatto di ostinarsi a chiedere soldi a datori e lavoratori con la promessa della pensione, aveva altre possibili alternative come quella da noi “follemente” suggerita in anni non sospetti, e pertanto ognuno oggi si deve accollare la responsabilità delle proprie scelte, senza scendere tuttavia nel ridicolo di addossare la colpa esclusivamente al prolungamento della vita media, o a presunti “drammi”  per le nuove generazioni.
Ora quindi si tenta di correre ai ripari, con l’obiettivo di continuare a mantenere la “pensione di Stato” e contemporaneamente reperire i fondi necessari, i quali non possono più essere procurati aumentando ulteriormente le aliquote del già pazzesco costo del lavoro nostrano.
Finalmente qualcuno comincia a chiedersi per quale motivo il gentil sesso possa indossare una divisa e prendere in mano un mitra, ma lo stesso non possa andare in pensione ad una età paritetica a quello dell’altro sesso: forse sarebbe stato più intelligente dare la precedenza a quest’ultimo aspetto invece che al primo. Ed è semplicemente assurdo che ancora si continui a menar il can per l’aia sotto questo aspetto, particolarmente tenendo conto che, da quel che è dato sapere, le donne sono più longeve degli uomini.
Ora, di fronte alla ovvia presa d’atto che la vita media si è allungata, sarà anche interessante vedere la reazione dei sindacati nostrani i quali saranno messi a confronto con l’ipotesi di estendere la vita lavorativa per tutti i lavoratori, e quindi di allontanare di qualche anno l’ambito traguardo della pensione.
In questo contesto si inserisce la scottante questione delle liquidazioni dirottate a copertura previdenziale.
Abbiamo già annotato che questa mossa è ben lungi dal rappresentare una vittoria o un qualcosa di positivo per i lavoratori: tutt’altro.
Il TFR era un bonus che il lavoratore incassava ogni qualvolta terminava un capitolo lavorativo, in aggiunta alla pensione che egli avrebbe percepito in ogni caso, ora lo stesso viene usato per sussidiare quest’ultimo istituto, quindi va svelato a chiare note l’arcano dell’intera operazione: non potendo toccare i contributi sul versante del datore per gli alti costi del personale, lo Stato non ha trovato altra via che mettere mano nelle tasche dei lavoratori, ovvero usare il TFR per assicurare la conservazione dell’istituto della pensione di stato obbligatoria per legge.
L’intera manovra andrebbe condannata anche sotto un altro aspetto non certo secondario. Si parla tanto della necessità di rilancio delle imprese, e poi si tolgono a quest’ultime i fondi del Tfr che -almeno nelle sane imprese – venivano usati per investimenti e innovazioni.
Quindi sull’intera manovra un giudizio completamente negativo sia dal punto di vista dei lavoratori, sia dal punto di vista industriale.
Al  di là comunque degli aspetti normativi, il vero problema consisterà in questi mesi sulla conoscenza e consapevolezza dei lavoratori chiamati a prendere una decisione fondamentale per il loro futuro. Ma quanto è giusto che anche su questo delicatissimo settore nasca l’ennesima figura del consulente/analista/esperto “previdenziale”? Ma è mai possibile che dalla scelta della società telefonica, all’acquisto della casa, alla scelta della nostra pensione, tutte le nostre giornate ormai debbano essere costellate dall’uso di questi (costosissimi) consulenti?
E se ciò accade dobbiamo ringraziare la complessità delle norme che si varano, le quali anziché venir costruite in maniera lineare, stringata e comprensibile sono sempre più l’opposto di questi termini.
Prova ne valga per tutti, i 1365 commi dell’unico articolo che compongono la Finanziaria di recente approvata.

Ricapitoliamo ora i punti essenziali avvalendoci di un quadro schematico, onde evitare ai lettori la noia di prolissi testi.

●La nuova normativa entra in vigore con un anno di anticipo; dal primo gennaio del 2007 anziché, come originariamente previsto, dal 2008.

●I lavoratori subordinati in forza al primo gennaio 2007, avranno tempo fino al 30 giugno del 2007 per scegliere tra:
-Investire il proprio TFR in una pensione integrativa;
-Conservare l’attuale regime

●Le nuove norme si applicheranno soltanto alle quote di TFR maturate dal 1° gennaio 2007; la quota maturata al 31/12/2006 non sarà interessata dal nuovo regime.

●Il dipendente ha due modi per decidere la sua scelta:

-In modo tacito, il cosiddetto silenzio/assenso in quanto la mancata
manifestazione equivale ad aderire al fondo pensione aziendale o, in assenza
di questo, al fondo pensione dell’Inps.

-In modo esplicito, ossia precisando se aderisce all’una o all’altra
delle opzioni.

●Chi vuole mantenere l’attuale status, ossia considerare il TFR un salario differito e percepirlo a fine rapporto lavoro, lo può fare solo con il modo esplicito entro il 30 giugno 2007.
Questa scelta non è definitiva e può essere successivamente modificata.

●Le società che hanno una forza lavoro superiore a 49 dipendenti, dovranno in ogni caso cedere il proprio TFR, indipendentemente dalla scelta che faranno i dipendenti.

●Per quei TFR trasferiti ai fondi pensionistici o all’Inps, i datori di lavoro non dovranno più provvedere alla rivalutazione annua, come attualmente avviene.

La cosa più intelligente da farsi, per coloro i quali non rientrano sotto l’obbligo del trasferimento forzoso,e che ne abbiano la possibilità economica, sarebbe quella di mantenere il TFR presso il proprio datore di lavoro in modo da poter disporre sempre di questo fondo cuscinetto all’occorrenza, e farsi per proprio conto, e di propria iniziativa una polizza assicurativa/pensionistica calibrata sulle personali possibilità economiche.
Il vantaggio di questa mossa sarebbe quello di instaurare un rapporto personale d’affari con l’assicuratore della polizza anziché far confluire il proprio TFR (e quindi la propria pensione) insieme a migliaia di altre pensioni in un anonimo fondo. In poche parole l’uso di questi fondi non permette di avere una gestione personalizzata del proprio portafoglio pensionistico, cosa che invece avviene stipulando una pensione privata.
Siamo veramente annoiati del fatto che il cittadino, con sempre maggiore insistenza, sia costretto a farsi gestire i propri risparmi da soggetti terzi, scelti dallo Stato.
Dopotutto si rifletta sul particolare che farsi una pensione integrativa col TFR equivale a usare il proprio denaro, in quanto il TFR è un credito del lavoratore; ebbene se si deve usare il proprio denaro per costruirsi una pensione integrativa, non vediamo motivo per cui non si debba considerare l’ipotesi di lasciare il TFR così come è, e stipulare autonomamente una polizza integrativa.

Per chi non ha questa possibilità due sono le opzioni disponibili, almeno per chi lavora con una società che occupa meno di 49 dipendenti:

– mantenere il TFR presso il datore con il rischio di prendere davvero poco il giorno in cui andrà in pensione;

– rinunciare al TFR per dedicarlo all’incremento della propria pensione.

Per coloro che sono occupati presso un datore di lavoro con più di 49 dipendenti per i quali quindi il TFR sarà in ogni caso dirottato all’Inps o ai Fondi Pensionistici, i pro e il contro saranno i seguenti.

Se si opta per il Fondo Pensionistico la rivalutazione delle quote accantonate dovrebbe essere, almeno sulla carta, migliore che non quella dell’Inps, ma al momento di andare in pensione il lavoratore verosimilmente avrà a che fare con due entità: l’Inps e il Fondo Pensione. Non dimentichiamo infatti che quest’ultima ha una funzione “integrativa” ma che la gestione pensionistica primaria rimane in ogni caso all’Inps.
Trascorsi i sei mesi Gennaio-Giugno 2007, la situazione che si verrà a creare a luglio, dal punto di vista delle imprese sarà la seguente:

IMPRESE  FINO A 49 DIPENDENTI            IMPRESE OLTRE 49 DIPENDENTI

# dipendenti che  hanno optato per il fondo            # dipendenti che hanno esplicitamente manifestato
pensione; il datore dovrà versare il TFR che            la volontà di voler aderire a un fondo, con conseguente
maturerà al fondo prescelto;                trasferimento del TFR al fondo pensione.

# per quei dipendenti che hanno comunicato         # dipendenti che hanno ESPLICITAMENTE espresso
esplicitamente di voler lasciare il TFR  presso        di voler conservare il TFR come salario differito; il datore
l’Azienda, per il datore tutto rimane come prima;         dovrà versare il TFR Fondo tesoreria gestito dall’Inps.

# Se il lavoratore non ha espresso alcuna volontà,        # Se il lavoratore non ha espresso alcuna volontà,
(silenzio/assenso) il TFR andrà versato al Fondo        (silenzio/assenso) il TFR andrà versato al Fondo
Pensionistico                        pensionistico.

In chiusura vorremmo evidenziare un caso che si potrebbe presentare per quei lavoratori che non esprimono alcuna esplicita volontà. In tal caso, come abbiamo detto, scatterebbe l’obbligo di legge per l’imprenditore di dirottare il TFR ai Fondi esterni all’azienda.
Ebbene poiché il TFR, di fatto e di diritto, è un credito di cui è titolare il lavoratore e come tale soltanto quest’ultimo è autorizzato a concedere la cessione a terzi, un davvero interessante caso legale sorgerebbe se il lavoratore inviasse una raccomandata diffidando il suo datore dal cedere a terzi il suo TFR. Una siffatta ipotesi non sarebbe affatto una forzatura, soprattutto avendo presente che da sempre sul mercato è esistita la cessione del credito (nel senso che spetta al titolare del credito eventualmente cedere quanto a lui spettante, ad altri), ma non sapevamo esistesse la possibilità di cessione del debito;  poiché in pratica con la nuova normativa è il debitore (il datore) che trasferisce un suo debito a terzi, senza avere avuto l’autorizzazione da parte del solo legittimato a farlo, ossia il creditore, ne potrebbe nascere un intrigante caso legale. Siamo certi che sentiremo parlare di casi del genere.

Antonio Bordoni