“Perché dopo 44 anni ho pensato a una versione teatrale de I pugni in tasca? In tutti questi anni mi sono state proposte varie riduzioni teatrali del film, ma in nessuna mi pare vi fosse un’idea nuova, un tentativo almeno di fare del film un’altra cosa, di reinventarlo almeno un po’. I dialoghi originali erano fedelmente riassunti col solo scopo di contenere la rappresentazione dentro la casa, cioè il palcoscenico a scena unica. Le azioni poi erano le stesse e si svolgevano in quei tempi lontani, prima del ’68 ecc ecc. Ho rinunciato senza troppa fatica, perché gli stessi autori di quelle “riduzioni” non erano veramente convinti e neppure tanto entusiasti. Ora che la possibilità di portare a teatro I pugni in tasca diventa concreta, per la disponibilità di Stefania De Santis, regista che stimo molto e con cui lavoro, per la possibilità di un cast molto originale, per l’interesse di un produttore teatrale, Roberto Toni, che non ha bisogno di referenze, tocca a me scrivere il copione e sperare di non cadere negli stessi errori che ho trovato nelle versioni teatrali che ho letto finora.
I pugni in tasca deve innanzitutto rinunciare alla sua fama di film preannunciante il ’68, il film della rivolta contro le istituzioni, la famiglia, la scuola, la religione ecc ecc. È vero che il film girò il mondo divenne un film di culto e colpì molti giovani, ma è acqua passata, nessun rimpianto, nessuna nostalgia. Io oggi penso a I pugni in tasca come a un dramma della sopravvivenza in una famiglia dove l’amore è del tutto assente. Si vive in un deserto di affetti senza nessuna prospettiva per il futuro, una situazione di immobilità assoluta che fa pensare a un carcere o a un manicomio senza speranza di guarigione, rieducazione, riabilitazione, rinascita ecc ecc. Manicomio o carcere interiori perché non ci sono sbarre e le porte sono aperte. Ogni fratello cerca a suo modo di sopravvivere, tranne il fratello apertamente folle che urlando ricorda continuamente il suo passato, la sua rabbia, il suo odio, il suo dolore. È una famiglia in cui c’è una madre che sembra buona, caritatevole (la “santa” de L’ora di religione), ma che in realtà imponendo a tutti i fratelli la pazzia terrorizzante del primogenito coerentemente con i principi della sua religione educandoli alla sottomissione e alla rinuncia alla sofferenza li ha ridotti ad essere come degli animali notturni che escono e si muovono soltanto quando il pazzo dorme (un po’ come l’orco della favola). E perciò annoiati sfaccendati non fanno nulla, sprecano così la loro giovinezza. Non lavorano, non studiano, inventandosi una malattia organica che li obbliga all’inattività, all’ozio, assecondati dalla madre (il padre è del tutto assente. Fuggito, morto in guerra?), l’unico che lavora è Augusto il quarto fratello che amministra male un patrimonio terriero che rende poco e permette alla famiglia una vita confortevole ma senza alcun lusso. Immobilità, inerzia, ripetitività. Ma come in tutti i drammi ad un certo momento Alessandro farà una cosa. Le continue fantasticherie a cui si abbandona tutto il giorno quasi per caso gli offriranno una possibilità concreta. La possibilità di compiere un delitto. Si accende un motore e da quel momento la sua vita prenderà velocità e come nell’apprendista stregone il guidatore perderà ogni controllo e finirà per sfracellarsi. Se i due delitti devono rimanere anche nella versione teatrale (rappresentati fuori scena?) è chiaro che immaginando una scena unica seppure in una struttura complessa molte azioni così efficaci nel film (pensiamo ai dettagli, ai primi piani, al gran ritmo del montaggio) devono trovare degli equivalenti teatrali e per esempio anche i tempi delle varie azioni saranno a teatro più lunghi, più reiterati, più esasperati, il ritmo cinematografico sarà sostituito da una tensione che poi di volta in volta esploderà in un gesto clamoroso. Niente di noioso ma lo stesso tempo (immagino una rappresentazione che corrisponde al tempo medio di un film o anche meno) con un altro battito (riutilizzando le stesse musiche di Ennio Morricone).
Nel dramma la famiglia, che le istituzioni dello Stato e della Chiesa continuano a sostenere come cellula fondante della società, dovrebbe essere rappresentata come un relitto, una zattera in balia delle onde, che prima o poi si schianterà contro qualche scoglio, e finirà per sempre.
Una tragedia?
Un dramma?
Poco importa.
I delitti de I pugni in tasca, se si fa un minimo sforzo di immaginazione, possiamo leggerli o vederli tutti i giorni sui giornali e in televisione in cui immancabilmente i vicini di casa dell’assassino non riescono a spiegarsi come quella tal persona così normale un giorno improvvisamente abbia fatto una strage e poi, ma non sempre, si sia suicidato.
Marco Bellocchio – dicembre 2009
1.13 febbraio
ErreTiTeatro30
Ambra Angiolini Pier Giorgio Bellocchio
I PUGNI IN TASCA
di Marco Bellocchio
riduzione e adattamento teatrale dall’omonimo film
con Giovanni Calcagno, Aglaia Mora, Fabrizio Rongione, Giulia Weber
scena Daniele Spisa
costumi Giorgio Armani
musiche Ennio Morricone
costumista Daria Calvelli
luci Loic Hamelin
regia Stefania de Santis
è uno spettacolo prodotto da Roberto Toni
si ringraziano il Teatro Comunale di Pietrasanta e la Fondazione Toscana Spettacolo