Nell’aprile di quest’anno autorità Usa e degli Emirati Arabi Uniti hanno siglato un accordo preliminare per l’apertura di un ufficio doganale statunitense sullo scalo di Abu Dhabi. Per quanto vi siano precedenti di tale tipo di facility, quello di Abu Dhabi costituisce una novità in quanto è il primo caso di un sito “preclearance” non servito da aerolinee Usa.
Lo scopo di queste barriere situate in paesi stranieri, è di effettuare i controlli di immigrazione, dogana, e sanitari nei punti di imbarco, quindi “a monte” evitando il crearsi delle lunghe file di attesa nelle destinazioni aeroportuali statunitensi. Fra le nazioni che già disponevano di queste facilitazioni ricordiamo il Canada e l’Irlanda. In Canada sono otto gli scali che permettono tale possibilità: Calgary, Edmonton,Halifax, Montreal, Ottawa, Toronoto, Vancouver e Winnipeg; in Irlanda Shannon e Dublino; altri sono disponibili nell’ara caraibica. Come si vede siamo pur sempre in zone che potremmo definire di influenza “atlantica”. In pratica una volta giunto a destinazione il passeggero, che è partito da uno di questi aeroporti, viene trattato come se fosse proveniente da un volo domestico anziché internazionale, anche se –ovviamente- persona e bagaglio a discrezione delle autorità possono essere oggetto di ulteriori controlli.
Disporre di una tale possibilità è molto conveniente per le stesse aerolinee statunitensi in quanto anziché essere obbligate a scendere sull’affollato JFK, possono optare anche per altri scali della stessa città e riservare gli slot del Kennedy per altre loro operazioni. Gli inconvenienti non mancano perché talvolta succede che la coda che si evita all’aeroporto di arrivo la si può trovare all’aeroporto di imbarco ed accade pertanto che il numero di addetti ai controlli se diminuisce sullo scalo di arrivo deve venir rafforzato su quello di uscita, tuttavia il personale addetto a questi controlli non viene fornito dall’aeroporto di partenza ma è in ogni caso personale Usa.
Il caso sta suscitando polemiche e dibattiti negli Stati Uniti proprio a causa del fatto che questa volta, a differenza dei 15 accordi già attivi, si vuole fare un agreement di preclearance su un aeroporto ove –almeno per il momento- nessuna aerolinea a stelle e strisce atterra. Peter DeFazio, membro anziano della House Transportation and Infrastructure Committe ha presentato diverse mozioni contro questo progetto.
Il punto principale su cui egli si batte è che i contribuenti Usa non dovrebbero venir chiamati a finanziare una facility che rende più agevole e spedito l’ingresso negli Stati Uniti di passeggeri provenienti dai ricchi paesi del golfo invece di far svolgere questo servizio, magari potenziando mezzi e uomini sul Kennedy, in territorio statunitense. Inoltre, annota DeFazio, non vi è dubbio che un tale progetto arrechi un ingiusto vantaggio ai vettori battenti bandiera straniera rispetto ai vettori statunitensi.
Secondo i sondaggi anche l’opinione pubblica americana sarebbe contraria, ed il Congresso si è fatto portavoce di tali opinioni, tuttavia malgrado queste voci contrarie l’accordo preliminare è stato firmato.
Le insoddisfazioni delle compagnie aeree
In realtà gli scontenti non sembrano essere soltanto le aerolinee Usa ma anche quelle europee. Infatti nell’aprile di quest’anno la AEA (Association of European Airlines) ha diramato un comunicato stampa mettendo in risalto come “le aerolinee europee sono costrette a cambiare gli operativi dei loro voli negli Usa per evitare le rush hours causate dalle barriere di controllo, trascurando in tal modo le comodità ed esigenze dei passeggeri che usano i loro servizi. Le misure prese ad Abu Dhabi indubbiamente distorcono il mercato Usa-Europa”.
Andando al concreto, tutto il traffico originante dal medio oriente o punti del Far East che si sarebbe potuto servire di hub come Francoforte, Londra, Parigi o altri UE per proseguire su voli diretti negli Stati Uniti, sapendo che passando via Abu Dhabi eviterà le file di controllo all’arrivo, potrebbe preferire di usare quest’ultimo instradamento rispetto al transito su scali europei. E ciò ovviamente significa perdita di traffico in coincidenza per gli aeroporti europei, nonché sottrazione di passeggeri per le aerolinee UE.
Ma d’altra parte come si può impedire a due nazioni sovrane quali USA e UAE di non fare a casa propria ciò che loro decidono di attuare? Se mai ce ne fosse bisogno questo è un ulteriore esempio che dimostra come l’industria dell’aviazione civile aveva meno contenziosi quando le regole erano uguali ed obbligatorie per tutti, di quanto non avvenga oggi. Infatti con il formarsi di “blocchi” geografici tipo quello UE che vorrebbe imporre le sue regole al mondo, i litigi si sprecano (recente contenzioso su ETS insegna).
La presa di posizione di De Fazio dimostra inoltre come a parole siano tutti bravi a tessere elogi alla globalizzazione (ricordiamo che gli Stati Uniti sono il Paese che ha esportato la deregulation al mondo), ma poi quando la stessa significa meno posti di lavoro o tagli sugli stipendi dei propri cittadini, ricorrendo magari allo strumento della cosiddetta delocalizzazione, anche i paladini del nuovo corso si ribellano.