Di Antonio Bordoni

Vi spieghiamo come fa una aerolinea a venir considerata italiana anche se controllata interamente da un soggetto straniero…

Malgrado l’aviazione commerciale sia una delle industrie più globali, le compagnie aeree si sono sempre trovate ad operare  all’interno di uno dei quadri normativi più vincolanti di qualsiasi altra grande industria, governato da un’intricata rete di accordi bilaterali tra gli Stati che limitano la libertà di perseguire strategie commerciali considerate invece del tutto normali dalla maggior parte delle altre industrie internazionali.

In genere, questi datati accordi “bilaterali” consentono di operare solo con un numero limitato di compagnie aeree designate da ciascuna parte. Inoltre, limitano la capacità, ovvero l’offerta che esse possono fornire. Fra i vari vincoli di accesso al mercato ricordiamo:

– Limitazione del numero, delle dimensioni e dei punti di destinazione dei voli che possono essere effettuati tra i Paesi;

– Limitazione del tipo di servizi di collegamento diretto o di accordi di code-share che le compagnie aeree possono offrire;

– Limitare la libertà delle compagnie aeree di fissare le proprie tariffe, spesso richiedendo che le tariffe siano approvate da uno o entrambi i paesi contraenti.

Per quale motivo le compagnie aeree si trovano ad operare in un tale angusto scenario?

Il motivo, a nostro parere, è alquanto ovvio anche se l’attuale tendenza è di ritenerlo obsoleto e superato. Per rispondere ricorreremo a nostra volta ad alcune elementari domande: ve la immaginate una Aeroflot non controllata dai russi e acquistata invece da un altro Stato?

Ve la immaginate una Air France la cui maggioranza azionaria venga acquisita da uno dei ricchi Stati del Golfo? E così con analoghi esempi potremmo continuare ancora a lungo.  La risposta è pertanto da ricercarsi nel fatto che la compagnia aerea nazionale viene ancora vista come un asset di cui va mantenuto il legame con la bandiera.

Ad essa non è consentito applicare la politica del “cancel culture” o del superamento del concetto di “Stato-nazione”: il principale vettore aereo di un determinato Paese rimane sotto il controllo della nazione di appartenenza.  Così si son comportati spagnoli e inglesi (Iberia /British Airways) anche se hanno formato la IAG, International Airline Group,  così han fatto francesi e olandesi nel formare il gruppo AF/KL e cosi ha fatto anche la Germania la cui compagnia nazionale Lufthansa è sempre e soltanto controllata da soggetti tedeschi.

Si potrà non essere d’accordo con un tale modo di vedere, ma la realtà è questa e basta guardarsi in giro per prenderne atto. Precisato quanto sopra va pure detto che con il passar del tempo, i governi non hanno potuto fare a meno di riconoscere gli evidenti vantaggi che deriverebbero ai vettori e ai consumatori dalla riduzione dei vincoli e restrizioni.

E’ per questo motivo che in Europa ricorrendo alla deregulation, negli altri continenti ricorrendo agli Open Skies, i limiti ai diritti di traffico, alle tariffe, alle frequenze e ai punti di destinazione sono stati gradualmente allentati o eliminati del tutto.

Ma  quale rapporto sussiste fra la deregulation dei cieli che in pratica significa lasciare libera ogni compagnia di gestire rotte e frequenze a volontà e riformare le regole di proprietà e di controllo di una aerolinea? I due aspetti non sono affatto consequenziali in quanto la libertà di commercio nei cieli non viene di certo agevolata (tutt’altro!) dal permettere ad una aerolinea di nazionalità ”A” di acquisire il controllo di un secondo vettore di nazionalità “B”.

Ed è proprio su quest’ultimo aspetto, che fra l’altro  è un elemento restrittivo della concorrenza, che si è consumata -in particolare all’interno della UE- una provocazione di dubbia logicità.

Da più parti si continua a sostenere che le compagnie aeree incontrano grossi ostacoli nel perseguire fusioni o acquisizioni, queste stesse fonti avvertono che è proprio a causa di ciò se le compagnie aeree sono ricorse al fenomeno delle alleanze cercando in tal modo di aggirare queste restrizioni nel tentativo di espandersi e consolidarsi.

Si è ricordato che le compagnie aeree sono aziende complesse e ad alta intensità di capitale e l’accesso a capitali e risorse manageriali straniere più convenienti, unito alle opportunità di ristrutturazione, potrebbe fornire opportunità di risparmio di efficienza e sinergie, disponibili per altri settori ma finora negate alle compagnie aeree.  Ma siamo sicuri che le compagnie aeree tradizionali, quelle di bandiera per intenderci, siano davvero disposte a cercare acquirenti all’estero? 

Dobbiamo però ammettere che questa domanda è mal posta: dal momento che stiamo parlando di compagnie di bandiera è ovvio ritenere che il soggetto responsabile a prendere decisioni in merito non siano i vertici della compagnia, bensì il governo di quel Paese.

Saranno infatti i responsabili politici di una Nazione a decidere se il loro principale vettore possa essere ceduto ad un soggetto di altra nazionalità e in merito, dobbiamo dire, che la situazione si presenta alquanto variegata dal momento che ogni Paese ha le sue regole; ma in Europa -o meglio nella UE- c’è chi ha voluto togliere dall’impaccio i singoli governi creando una sua precisa regola a cui tutti debbono attenersi.

Regole e limiti vigono ovunque e, a nostro parere, sarà ben difficile  che verranno abolite. Si tratta di leggi nazionali che impediscono agli stranieri di possedere o prendere il controllo delle compagnie aeree. In Australia, il Qantas Sale Act vieta la proprietà della Qantas da parte di stranieri. Negli Stati Uniti, il Civil Aeronautics Act stabilisce che tutte le compagnie aeree devono essere possedute e controllate al 75% da americani.

Le normative europee in materia di licenze, pur consentendo l’acquisizione transfrontaliera all’interno dell’Europa, prevedono che le compagnie aeree europee debbano avere una maggioranza di proprietà europea e un controllo effettivo. Leggi simili possono essere trovate ovunque.

Ma a questo punto crediamo sia giunto il momento di spiegare il titolo di questa nostra newsletter e parlare della “Sede Principale d’Affari” ovvero il “Principal Place of Business” (PPB).

La “magia”. Ownership significa “proprietà”, “titolarità”.  E’ il termine che è stato usato fin dall’avvio dell’aviazione commerciale per identificare la nazionalità della compagnia aerea. In poche parole se una aerolinea voleva essere italiana  i suoi proprietari dovevano essere cittadini o imprese italiane; stesso principio lo si può  estendere a qualsivoglia aerolinea e nazione.

Tuttavia poiché è apparso evidente a tutti che la maggior parte degli Stati non voleva rinunciare ad avere una propria compagnia di bandiera, si trattava di trovare un escamotage che permettesse l’acquisizione da parte di un soggetto estero mantenendo però  inalterata la sua bandiera originale.

Era un arduo compito. Ma così come è stata varata la finanza creativa, alla fine si è riusciti a inventare anche la aerolinea di nazionalità creativa che potremmo definire anche di nazionalità virtuale. Tutto ciò, sia ben chiaro, per permettere gli acquisti transfrontalieri, non si ravvede altro motivo.

La soluzione è stata per l’appunto l’idea del “Principal Place of Business”  la quale altro non vuol dire che per il mantenimento della nazionalità si farà riferimento non più alla proprietà bensì alla sede principale dell’aerolinea ovvero al luogo in cui essa è stata costituita,  ha la sua sede principale e da lì svolge la sua attività istituzionale.

Diciamolo francamente, in altri tempi una tale soluzione sarebbe stata rigettata al mittente con irripetibili commenti. Come si può considerare svizzera una compagnia che è stata acquisita al 100 per cento da Lufthansa?

Come si fa a considerare ancora italiana una Air Dolomiti il cui pacchetto azionario è controllato interamente da Lufthansa? Eppure nell’ambito della UE una tale soluzione è del tutto possibile e attuabile. Di certo se provassimo a dire ad una compagnia a stelle e strisce, io rilevo tutto il tuo pacchetto azionario ma poiché tu sei nata e risiedi a Kansas City, ti assicuro che tu rimarrai americana, possiamo ben immaginare la risposta che riceveremo. (1)

Ebbene è ricorrendo a tale strumento che in Europa Lufthansa è riuscita ad acquistare tre ex vettori di bandiera penetrando nei relativi mercati e con ogni probabilità è destinata ad acquisirne anche un quarto. (2)

Ma il concetto di PPB è un qualcosa creato appositamente per l’aviazione civile o  esso è stato sempre  presente nel vocabolario del commercio internazionale? Il legittimo dubbio potrebbe essere sorto a più di un lettore. Ebbene in merito possiamo dire che l’individuazione della sede principale è molto più di un semplice indirizzo per un’azienda; è un indicatore giuridicamente significativo che influisce su vari aspetti delle sue attività, dalla conformità normativa e fiscale alla giurisdizione e al diritto del lavoro.

Poiché le aziende operano sempre più spesso su più sedi e confini, l’identificazione e la conservazione accurata della sede principale dell’azienda è oggi più che mai una necessità fondamentale. In termini legali, la sede principale dell’attività può avere un impatto sulla residenza fiscale, una società è generalmente soggetta all’imposta sulle società in base alla sua residenza, che spesso è legata al luogo in cui è stabilita la sua Sede Principale d’Affari.

Pertanto, la comprensione e la determinazione accurata di questa sede è fondamentale per la conformità alle leggi fiscali. Si può pertanto affermare che il principio generale quale concetto identificativo è sempre stato presente, tuttavia l’escamotage creato da IATA e ICAO di individuare la nazionalità di un vettore in base al concetto di PPB è una scelta del tutto autonoma e unilaterale.

Ma le magie della UE non finiscono qui. Personalmente non saremmo affatto contrari di fronte alla soluzione adottata se la stessa fosse stata resa applicabile ad ogni vettore di ogni continente, ma il punto è che le acquisizioni transfrontaliere si possono fare solo se l’acquirente è un vettore di nazionalità UE.

“Gli investitori esteri possono investire nelle compagnie aeree dell’UE ma non possono superare il 49 % della proprietà, mentre il controllo della società deve rimanere all’interno dell’UE. Gli Stati membri dell’UE o i cittadini dell’UE devono essere proprietari di più del 50 % dell’impresa.” (3)

Ora ben sapendo che nel nostro continente vi sono sempre stati Paesi economicamente più robusti di altri, facciamo peccato a pensar male? Facciamo cioè peccato se crediamo che una tale regola è stata creata per favorire l’acquisizione di vettori in difficoltà da parte di vettori dalle spalle più larghe, escludendo però la concorrenza extra-UE?

 

 

  • La domanda da noi posta è volontariamente provocatoria, in quanto come abbiamo specificato, la regolamentazione Usa fissa al 25% la massima quota percentuale acquistabile da un investitore estero.
  • Abbiamo più volte ricordato che i vettori in questione sono l’austriaca “Austrian”, la svizzera “Swiss International” e la belga “Brussels Airlines” tutti controllati al 100 per cento dal vettore tedesco Lufthansa.Il quarto potrebbe essere come noto, ITA Airways.
  • Regolamento (CE) n. 1008/2008 del 24 settembre 2008, GU L 197 del 31.10.2008, pag. 3. Leggere anche “Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Una strategia per l’aviazione in Europa.” 7/12/2015 COM2015, 598 Final. Quale precedente che più da vicino ci ha riguardato vorremmo ricordare quanto accaduto nel 2017/2018 allorché Qatar Airways si fece avanti per il controllo di Air Italy ma si dovette fermare al 49 per cento in quanto compagnia non comunitaria.

 

Tratto da  www. Aviation-Industry-News.com