Iniziano a trapelare dubbi sull’opportunità di ritenere normale l’alto stato di allerta costantemente attuato negli scali.  L’aereo non è mai stato un mezzo di trasporto confortevole. I ristretti spazi dei sedili e della cabina, gli ingorghi di traffico per giungere negli aeroporti, i tempi sempre più lunghi di accettazione e di controllo sicurezza, i ritardi cronici causati sia da fattori meteo come da obiettivi sovraffollamenti, la possibilità concreta di non vedere giungere il proprio bagaglio, hanno fatto del trasporto aereo uno dei mezzi decisamente meno comodi. E non crediamo sia affatto un caso che laddove il treno ha offerto velocità e qualità, la preferenza dei passeggeri è progressivamente andata a questa alternativa. La situazione generale è poi decisamente deteriorata dopo gli avvenimenti del 9/11, quando ogni passeggero che sale a bordo deve mostrare quello che porta in tasca, nel suo bagaglio, nella suola delle scarpe, eccetera, il tutto attraverso estenuanti controlli.

I serpentoni che si incontrano ai terminal di Heathrow sono divenuti il simbolo mondiale del disagio dei viaggiatori del mezzo aereo. Tutto ciò, dal momento che in ballo è “la sicurezza” è stato accettato come qualcosa di inevitabile e non discutibile ma di certo una prima conclusione la si può senz’altro fin qui trarre, e cioè che se i terroristi volevano instaurare la politica del terrore e della paura, hanno raggiunto in pieno il loro obiettivo.

Attorno al problema è nata una fiorente industria di accessori. Così ad esempio se dovete fare un viaggio in aereo e volete  portare con voi liquidi, siano essi cosmetici, medicinali o semplici bevande dovete  acquistare gli appositi contenitori previsti dai regolamenti.

Recentemente si è appreso di un caso giudiziario avviato da un passeggero il quale si era visto rifiutare l’accesso a bordo delle sue racchette da tennis. Il passeggero insisteva per portarle in cabina dal momento che da nessuna parte all’aeroporto era scritto che le racchette erano considerate oggetti pericolosi e come tali non trasportabili. A fronte delle sue insistenze era stato fatto imbarcare insieme ad esse, ma una volta a bordo gli agenti della sicurezza lo hanno fatto ridiscendere. Il caso finisce alla Corte di Giustizia Europea dove il viaggiatore ottiene una sentenza favorevole in quanto la Commissione UE che aveva emesso il regolamento sugli oggetti vietati a bordo degli aerei, aveva omesso di pubblicare, e quindi ufficializzare,  il testo sulla Gazzetta Ufficiale. Morale della favola: il passeggero deve essere reso edotto in anticipo di ciò che lui può o non può portare a bordo.

La sicurezza aeroportuale, quel complesso di operazioni che vengono svolte negli scali al momento dell’imbarco, ha subìto nel tempo una evoluzione che si è adattata alla tipologia del crimine stesso.

L’evoluzione storica delle cause dell’atto ostile contro l’aeromobile può essere così riassunta:

 

  • – Bomba a bordo a scopo assicurativo, per incasso polizza;
  • – Bomba a bordo a scopo politico;
  • – Dirottamento del velivolo sempre per finalità politiche;
  • – Atto kamikaze

 

Come si vede l’escalation segue un percorso molto preciso. Nelle prime due modalità l’attentatore evitava di imbarcarsi a bordo del velivolo che prendeva di mira; nella terza tipologia poteva avvenire che il dirottatore venisse ucciso e comunque chi metteva in atto il piano sapeva che si correvano dei rischi, nel quarto ed ultimo tipo di atto ostile, il dirottatore è deciso a immolarsi insieme a tutto il carico umano a bordo del velivolo. Una vera escalation che non poteva non condurre ad una revisione completa delle procedure di sicurezza.

 

Un po’ di storia

Nell’immediato dopoguerra, quando il mezzo aereo stava diffondendosi quale mezzo di trasporto di massa, vi fu chi ne approfittò per trarne illeciti vantaggi, anche a costo di seminare la morte fra innocenti passeggeri.

Erano i tempi in cui, approfittando degli ingenui regolamenti sulla riscossione delle polizze assicurative, si metteva un ordigno all’interno di una valigia, questa veniva messa a bordo senza che il reale proprietario si imbarcasse e il gioco era fatto. Poi vi furono gli attentati di matrice politica.

 

Gli attentati di una volta….

 

Erano le 7.13 di domenica mattina 23 giugno 1985 quando l’area smistamento bagagli dell’aeroporto di Narita a Tokyo fu squassata da una lacerante esplosione. Due operai morirono, quattro furono i feriti. In realtà la valigia ove era contenuto l’esplosivo, in quel momento secondo lo schedule della compagnia avrebbe dovuto trovarsi a bordo del volo Air India 301 che collegava la capitale nipponica con Bangkok e quindi l’India. Esattamente a un’ora dall’esplosione di Tokyo, il Boeing 747 dell’Air India in volo da Montreal a Londra precipitava nell’Oceano Atlantico, in prossimità delle coste irlandesi, con il suo carico umano di 329 vite. Anche in questo caso la causa dell’incidente fu un’esplosione a bordo.

Se si eccettuano gli eventi del 9/11, quanto accaduto il 23 giugno 1985 si può considerare il piano più sanguinoso attuato nei confronti di una compagnia aerea in quanto rappresentante di una bandiera.

In entrambi i casi le indagini ricondussero al gruppo separatista Babbar Khalsa il quale in quel periodo lavorava per la formazione di uno stato autonomo da locarsi nel Punjab, denominato Khalistan.

Ma non tutte le esplosioni a bordo sono riconducibili a matrici politiche. All’inizio gli attentati, come precisiamo nel testo, puntavano all’incasso di polizze assicurative.

 

Ed infine si giunse al periodo dei dirottamenti, soprattutto causati dalla crisi palestinese. Una novità assoluta che segnò l’avvio di una nuova fase e di nuove contro-strategie. Il nemico non era più l’individuo isolato che cercava di frodare le compagnie assicurative, o sconosciuti gruppi che volevano far conoscere il loro dramma al mondo; grosso modo fino agli anni ottanta, sarà il caso di ricordarlo, non vi era la marea di vettori che oggi solcano i cieli ma solo un vettore di bandiera per ogni Stato: colpire questo vettore significava mandare un segnale al governo di appartenenza.

Nella maggior parte dei casi di dirottamento, gli hijackers o si arrendevano dopo estenuanti trattative o venivano uccisi dalle forze di sicurezza. In ogni caso eravamo ben distanti da ciò che è stato messo in atto il 9/11.

Nel periodo immediatamente precedente agli eventi delle Twin Towers il terrore a bordo dei velivoli aveva un solo termine: dirottamento o hijacking; divenne famoso in questo periodo il codice 7500 quello che il pilota doveva digitare sul suo computer di bordo per segnalare agli operatori radar di terra  l’esistenza di un dirottamento a bordo (7700 è il codice invece per le emergenze). Fra l’altro “Squawk 7500” è il titolo di un libro scritto da un pilota, basato su un evento realmente accaduto. Il 9/11 ha segnato uno spartiacque fondamentale nel campo della sicurezza del volo.

Prima di quella data infatti tutti i controlli che venivano effettuati partivano dal presupposto che la bomba veniva imbarcata a bordo ma che l’attentatore rimanesse a terra e comunque avesse l’intenzione di scendere vivo dal velivolo dirottato. Tutti ricorderanno la procedura di riconciliazione bagaglio.

Ma dopo gli eventi delle Torri Gemelle, l’Organizzazione Mondiale per l’Aviazione Civile (ICAO) impose il controllo del 100% dei bagagli e dei passeggeri che si imbarcavano.

L’enorme mole di lavoro, di personale ed equipaggiamento atto a svolgere questo compito ha comportato, e tuttora comporta, esborsi economici notevoli. Il tutto a carico di una industria da sempre afflitta dalla scarsità dei profitti e dal clima di alta concorrenza che si veniva accentuando a causa della deregulation che avrebbe portato al fallimento di nomi insospettabili. L’introduzione delle nuove misure di controllo sono state accompagnate dalla polemica su chi dovesse farsi carico delle spese supplementari: i gestori aeroportuali, i passeggeri, i vettori o i governi?

Se oggi si facesse un censimento su come stanno le cose si troverebbe una situazione molto variegata in quanto, al di la delle varie tasse aeroportuali nate per lo scopo e che comunque non coprono interamente le spese, i governi locali sono intervenuti senza una guideline comune chi contribuendo più, chi contribuendo di meno.

Ma il problema su cui si inizia a dibattere è quello da noi accennato nel titolo.

Da più parti, da più fonti ci si interroga su quanto sia opportuno mantenere così alto il livello di allerta negli aeroporti, focalizzandosi solo e soltanto su un aspetto. “Non sono pochi coloro che criticano questa politica, avvertendo come il focalizzarsi così pesantemente sullo screening dei passeggeri, lascia scoperti gli aeromobili e il trasporto aereo su altri fronti ed altre aree” (Eben Kaplan, “Post 9-11 Aviation Security, settembre 2006)

In questo caso l’autore si riferisce ad altri settori del campo aereo lasciati clamorosamente scoperti, quali cargo e terminal. Ma non manca chi specificatamente si interroga sugli aspetti economici: “nessuno sembra tener conto del costo dei ritardi delle partenze provocati dai rallentamenti per la sicurezza negli aeroporti. Nel 2002 l’economista Roger Congleton calcola che ogni 30 minuti in più trascorsi dai passeggeri negli aeroporti costano all’economia 15 miliardi all’anno, quasi il triplo dei ricavi annuali dell’industria aerea degli anni novanta” (Loretta Napoleoni, “Economia canaglia”, 2008 Il saggiatore)

I critici dell’attuale sistema non mancano di far notare come per un dipendente aeroportuale sarebbe estremamente facile portare a bordo e piazzare un ordigno esplosivo, o lasciare un arma nascosta in un posto convenuto nella cabina passeggeri. D’altra parte se gli impiegati aeroportuali riescono a trafugare i bagagli in arrivo e partenza, per quale motivo dubitare che qualcuno di questi non si dovrebbe far corrompere per piazzare a bordo un innocente pacchetto?

Sull’argomento sicurezza bisogna essere estremamente chiari: se poniamo su un piatto della bilancia il carico di vite umane che porta un aereo, e sull’altro il costo che si deve sostenere per controllare chi sale a bordo, effettivamente la risposta non può che propendere verso il primo aspetto. Ma il punto in discussione è un altro: siamo sicuri che questo sia l’unico modo, il più efficace per contrastare la minaccia?

“Un pilota che vola su tratte intercontinentali mi ha raccontato che schiantarsi con un’autobomba in uno dei terminal dell’aeroporto di Heathrow all’ora di punta…sarebbe molto più facile e più letale che far esplodere un aereo in aria” (come sopra)

In uno studio molto dettagliato John Mueller del dipartimento di scienze politiche dell’università dell’Ohio, mette in evidenza come gli Stati in molti casi tendono a contro-reagire in modo esagerato alle minaccie: “another common reaction to terrorism is to become overly-protective and to overspend on defenses. Sometimes victim countries become so fearful and self-protective that significant consequences, particularly economic ones, ensue.” (reaction and overreactions to terrorism, ottobre 2005) 

E citando espressamente gli eventi del 9/11 Mueller rammenta che se l’impatto economico diretto delle perdite causate è ammontato a circa 10 miliardi di dollari, il costo economico sostenuto nei soli Stati Uniti per mettere in atto e mantenere le misure di sicurezza ha ecceduto di molto quella cifra.

Come si vede quindi nel mondo ci si inizia a interrogare sull’opportunità di gravare il trasporto aereo mantenendo controlli rigorosi, limitati però ad uno solo – sarà il caso di ripeterlo- aspetto: il passeggero-kamikaze.

Due sono i sistemi che potrebbero sostituire l’attuale dispendioso sistema di controlli. Le cosiddette interviste “alla israeliana”, ricordando l’ottimo “stato di servizio” della compagnia El Al in termini di dirottamenti e sicurezza, o la presenza “discreta” di personale della sicurezza a bordo del volo, precisando che l’una misura non esclude l’altra, come entrambe non escludono la possibilità di continuare a controllare bagagli e passeggeri nella fase di imbarco, ricorrendo a modalità più snelle.

 

L’unico caso di dirottamento riuscito avente come oggetto un velivolo El Al, è quello avvenuto il 23 luglio 1968, quindi quale attenuante si può citare il fatto di essere uno dei primissimi casi, quando un Boeing 707 con 10 membri di equipaggio e 38 passeggeri in volo fra Fiumicino e Tel Aviv venne dirottato su Algieri. Le trattative durarono 40 giorni e alla fine passeggeri ed equipaggio furono rilasciati.

 

Per quanto riguarda specificatamente l’utilizzo di guardie armate a bordo di aerei ricordiamo che in base a quanto previsto dal trattato di Prum (27 maggio 2005, Austria, Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Olanda) e il successivo regolamento comunitario n. 300/2008, ogni Paese può decidere in modo autonomo circa l’uso di guardie armate a bordo degli aeromobili registrati nello Stato di appartenenza.

 

Noi, in base alle tasse e charges che abbiamo visto piovere sul settore in esame nel corso negli anni, avremmo una nostra teoria sul perché le misure continuano a venir adottate con queste modalità. Supponiamo per un momento che la minaccia anziché essere diretta all’aviazione commerciale, la quale come è noto è stata “scaricata” dai governi,  avesse preso di mira un mezzo di trasporto interamente controllato e gestito dalla mano pubblica, quale è in molti paesi il settore ferroviario. In tale ipotesi il costo delle misure di sicurezza sarebbe ricaduto interamente sullo Stato, salvo gravare il biglietto ferroviario di una modesta fee che chiaramente non avrebbe affatto coperto i costi. Ebbene in un tale scenario credete davvero che gli Stati avrebbero mantenuto in essere per anni un così dispendioso sistema di sicurezza, con spese a loro completo carico? La risposta -è un nostro personale parere- è del tutto negativa.

Ciò che vogliamo dire è che se oggi negli aeroporti, a quasi 10 anni di distanza dagli attentati del 9/11, ancora sono in vigore misure così gravemente lesive del normale scorrimento delle operazioni aeroportuali è solo perché tutto il gravame economico di esse viene assorbito in stragrande misura da gestori aeroportuali, da compagnie aeree e dai passeggeri. La nostra considerazione si basa sul fatto che l’industria del trasporto aereo commerciale è l’unica al mondo a farsi carico delle più assurde tasse, da quella sulla povertà a quella sul rumore, e pertanto non ci meraviglia affatto che anche la security e tutti i costi che essa comporta abbiano trovato un fertile e duraturo terreno di attuazione.

 

Antonio Bordoni