Sono all’incirca le diciotto. In pochi minuti sarà buio. Il sole, sempre più basso, sta andando via, ma prima di cedere il cielo alla notte, va ad incendiare via via l’orizzonte di questa vallata che pare non avere fine. Siamo completamente soli.
È una distesa enorme, a perdita d’occhio, con qualche albero dall’ombra lunghissima qui e lì, con una pozza d’acqua solitaria al centro, con i colori della savana, intrisi, carichi, saturi che si stanno snaturando pian piano, tutti all’unisono, verso il rosso fuoco e sangue del tramonto e subito dopo verso il nero più nero dell’oscurità.
Siamo completamente soli.
Un altro giorno sta per concludersi a Hwange. Siamo testimoni di uno dei momenti più magici che il continente africano può regalare. Il calar del sole, in questa parte di mondo, lascia senza parole anche il più bravo dei poeti.
Il totale silenzio al quale non siamo abituati disarma totalmente, crea quasi imbarazzo, non si sa come riempirlo, si cerca qualcosa per turbarlo, ma il segreto vero sta nel farsi riempire da lui, nel farsi turbare, plagiare e poi calmare dal silenzio. Il silenzio si sente. Non è il nulla, non è un vuoto acustico, il silenzio si ascolta; si possono chiudere gli occhi e farsi invadere. Il silenzio è fatto dal vento, dal profumo, il silenzio può essere umido e secco, ruvido, ondulato e soavemente liscio. Il silenzio prende la forma del posto in cui si trova.
Ognuno di noi, almeno una volta, ha forse udito cantare il silenzio; in tanti luoghi questo si esibisce. Nell’Africa Australe però, quando la melodia comincia si ha la palpabile sensazione di prender parte ad un evento unico che mai nella vita si riuscirà a vivere un’altra volta.
Il giorno dopo, ma anche solo qualche ora più tardi, sarebbe un silenzio diverso, non meno bello, ma non uguale.
E noi, rimaniamo in contemplativo silenzio sulla jeep, tra pochi minuti dobbiamo rientrare, cerchiamo di assorbire tutto quello che ci rimane.
All’improvviso udiamo, ad una distanza non definibile, un rumore sordo, tumultuoso, sempre più incalzante, sempre più vicino, sempre più definito. Sono zoccoli, centinaia e centinaia di zoccoli.
Al rumore, in pochi istanti, segue una nuvola di terra e polvere all’estremità destra della vallata, nuvola anch’essa sempre più vicina, con una scia nera in avanzamento al suo apice. “Sono Bufali” esclama Sandro.
È una mandria sconfinata di bufali in corsa verso la pozza d’acqua al centro della valle. Quattrocento, forse cinquecento, impossibile farne una stima, ed impossibile fare una stima anche dell’emozione che stiamo provando.
Siamo totalmente rapiti da ciò che sta avvenendo di fronte a noi che non ci accorgiamo neppure che un altro centinaio di bufali sta sopraggiungendo alle nostre spalle, in corsa come gli altri.
Siamo circondati.
La seconda mandria, quella più piccola, ci sfila a pochi metri dalla jeep, si ricongiunge in un attimo con la prima, ed in un’unica nuvola arancione di terra arrivano finalmente alla pozza e lo scalpitio si placa. Tra di noi solo espressioni di grande stupore ed i cuori che sbattono nel petto ancora una volta dall’emozione.
Dopo qualche istante, quando iniziamo a metabolizzare ciò che abbiamo appena ammirato, ci rendiamo conto che ancora, al nostro cuore, non è dato di riposarsi.
Dalla vegetazione che incornicia la radura tutto a sinistra, spuntano uno, due, dieci, trenta, sessanta e forse più elefanti, correndo verso la stessa pozza d’acqua colonizzata poco prima dai bufali. La sete in Africa, quando il giorno sta per finire, dev’essere insopportabile. I bufali iniziano a spostarsi tutti da un lato per lasciare spazio ai nuovi conquistadores, la maggior parte si allontana del tutto; gli elefanti, si sa, non anno paura di nessuno.
Il tramonto, i colori, l’Africa, i bufali e gli elefanti, il galoppare della vita ed il silenzio, lo scorrere dell’acqua nelle proboscidi, ed il rumore degli zoccoli nella fanghiglia…
…A noi, ormai, muoiono in gola anche le espressioni di stupore.
Nessuno fiata.
E con loro, pure il rosso del tramonto, tramortito va a morire.
In quella falsa luce che annuncia le tenebre ognuno di noi, con l’aria sempre più fredda a tagliarci la faccia, assiste allo spettacolo della vita, quella selvaggia: africana.
Sulla nostra retina non si infrangono più i colori caldi australi, è divenuto buio; rientriamo.
Il motore si avvia, gli animali alzano la testa ma non si scompongono.
“Vivo in Africa da trent’anni, ma non ho memoria di nulla di simile a questo. Andiamo!” esclama Sandro.
Andiamo!…
Questo è solo uno degli incredibili momenti vissuti nel nostro viaggio in Zimbabwe e Botswana. In appena otto giorni l’Africa ci si è attaccata, tatuata sulla pelle, per segnarci, probabilmente, per sempre.
Si possono prendere appunti, fiumi di appunti, si possono fare centinaia di scatti e minuti di riprese, ma sono le sensazioni che uno prova sulla propria pelle che vengono ricordate poi anche a distanza di anni; molte volte per sempre.
Il sentirsi inglobati così dalla natura, il sentirsi, anche se come una cellula impazzita, parte di essa, viverla con tutti e cinque i sensi, accumulare ogni istante emozioni su emozioni, liberare la mente dal resto perché non c’è tempo e spazio se non per le nuove sensazioni; riuscire a sentirsi piccoli piccoli e allo stesso tempo tremendamente fortunati per la possibilità di conoscenza concessaci dal destino.
Lo spettacolo incredibile delle Cascate Vittoria
Siamo arrivati a Victoria Falls per l’ora di pranzo dopo aver volato per all’incirca un’ora e mezza da Harare, la capitale dello Zimbabwe.
Sappiamo di esser vicini alle famose cascate, ma non le vediamo, siamo un po’ impazienti, in tanti documentari le abbiamo ammirate e sognate, il trovarci così vicini ce le fa ulteriormente desiderare.
Ma dovremo aspettare sino al giorno seguente, nel pomeriggio infatti ci imbarchiamo su una strana imbarcazione di latta per andare ad esplorare le rive dello Zambesi a monte rispetto alle cascate, dove ci fermeremo sino al tramonto.
Il fiume straripa di vita, ed i colori del tardo pomeriggio tolgono il fiato. Ci sono naturalmente altre imbarcazioni di turisti, ma gli animali sornioni non se ne curano poi più di tanto. Ippopotami, coccodrilli, facoceri ed elefanti lungo le rive, e poi tanti, tantissimi uccelli, di ogni colore, canto e dimensione. Per fortuna con noi c’è Egidio, appassionato ornitologo, che ce li illustra tutti.
Contempliamo il primo calar del sole del viaggio sulle acque del grande fiume, in un punto dove questo si fa particolarmente ampio; ne rimaniamo estasiati.
La mattina seguente le pale dell’elicottero cominciano a volteggiare alle nove; saliamo! Tempo un minuto e sotto di noi si apre la fenditura nella roccia che dà forma alle Cascate Vittoria. Impressionanti.
Lo Zambesi precipita con un fronte di poco meno di un chilometro, ed un salto di oltre cento metri liberando nell’aria un’enorme quantità d’acqua che va a formare una nube bianca. Tutt’attorno la foresta, più in là lo Zambia. Questo è il culmine della stagione secca eppure la quantità d’acqua che precipita fa paura.
La crepa nella terra che accoglie la caduta delle acque dello Zambesi, vista dall’alto, pare come una enorme faglia apertasi dopo un terribile terremoto che ha lasciato la crosta ancora fumante. Se ne percepisce la potenza anche ad enorme distanza.
Atterriamo con gli occhi pieni di immagini che non facciamo in tempo a catalogare che già ci ritroviamo di fronte alla cascata. Se prima, volando, potevamo vederla tutta, ora quasi ne perdiamo i confini; è immensa! La osserviamo in tutto il suo mastodontico splendore da un sentiero ubicato sulla ripa a strapiombo di fronte ad essa. Piove letteralmente. È così tanta l’acqua nebulizzata che rimbalza. Ce la gustiamo tutta, cerchiamo di catturarla nelle nostre macchine fotografiche ma non ci sta, cerchiamo di disegnarla con un immaginario carboncino, ma non si può, ogni istante è diversa, cangiante, dalla geometria mutevole. La prendiamo con gli occhi allora, e la facciamo nostra, solo nostra.
Nel pomeriggio, dopo aver visitato il “Victoria Falls Hotel”, magistrale esempio di architettura coloniale inglese, risale infatti al 1904, prendiamo un treno a vapore della stessa età che ci conduce sino alla frontiera con lo Zambia che non oltrepassiamo. Sostiamo su un ponte di ferro campato sullo Zambesi che rifugge dalle cascate, facendosi tortuoso, agitato e tentacolare.
Il sole va giù. Alle nostre spalle le cascate, sotto e di fronte a noi, il fiume che, spaventato dopo la caduta, scappa via di corsa, intorno la foresta resa scura dal controluce del tramonto…
…Un altro tramonto africano.
Il Parco Chobe in Botswana
Nei giorni seguenti visitiamo due parchi nazionali, diversi tra loro ma allo stesso modo entusiasmanti: Il “Chobe”, in Botswana, che prende il nome dall’omonimo fiume che lo attraversa, e “Hwange”, in Zimbabwe.
Del primo ne attraversiamo una piccola parte fiancheggiante il fiume, e poi, in seguito, sul fiume per studiarne le rive. Per conoscere tutto un intero parco servirebbero molti mesi. Per essere il momento più secco dell’anno il territorio è discretamente verde.
Subito scorgiamo degli impala, poi delle antilopi della sabbia e dei kudu, sempre tanti uccelli a volteggiare sulle nostre teste, babbuini ed elefanti. Tanti elefanti. È bellissimo vedere elefanti ovunque! Che si rotolano nel fango, che si idratano la pelle, che bevono, che si rinfrescano, che giocano. Si starebbero ore fermi ad osservarli in prossimità delle pozze d’acqua. Sono stupendi i piccoli che ancora non adoperano bene la proboscide, che perdono l’acqua appena aspirata o che hanno difficoltà a sfrondare i rami, che nuotano sott’acqua tra le grosse gambe delle madri usando il loro naso come boccaglio, che spruzzano l’acqua come per vederne l’effetto che fa. E poi ippopotami, ancora coccodrilli e bufali, facoceri; in ogni direzione si scorge della vita, che si guardi in alto, per aria, o in acqua, sulla sommità degli alberi dove è facile sorprendere il collo di una giraffa, o tra la bassa vegetazione tra la quale si mimetizza un dik-dik.
Le nostre jeep non hanno tetto né finestrini, solo la scocca ne completa la sagoma. E gli animali che osservano il mezzo, ne comprendono solo questa sagoma squadrata ed unitaria, non si capacitano del fatto che all’interno vi sono degli occupanti, noi, per loro è un’unica entità. È per questo che si può rimanere, in sicurezza, ad un metro da un grande elefante, o fiancheggiare l’incedere di una leonessa. L’importante è non turbare in alcun modo l’equilibrio di questa sagoma che l’animale ha negli occhi, ad esempio alzandosi in piedi oltrepassando il contorno immaginario dell’auto, o, peggio ancora sporgendosi e scendendo (cosa vietatissima!). Le probabilità di ritornare sulla jeep sarebbero ridottissime. Ma finché si seguono alla lettera le istruzioni dei ranger esclusivamente non armati, il safari, per quanto folgorante a livello emozionale, non racchiude in sé nulla di pericoloso.
È proprio vero, non c’è pericolosità se si osservano pochissime banali regole di buon senso, ma è altrettanto vero che ti si ferma il cuore nel petto quando, a meno di un metro di distanza, con le zanne quasi a sfiorare la portiera, una femmina adulta di elefante punta i suoi occhi nei tuoi, ed immobile ti guarda, e tu la senti respirare, masticare, ansimare, sfidare, si, sfidare. Lei sa di essere la più forte, e sa che deve difendere il suo piccolo da chiunque, è per questo che non si allontana dall’auto, bensì aspetta che ce ne andiamo, per affermare la sua leadership.
I ranger considerano gli elefanti gli animali più pericolosi in assoluto; una loro carica non dà possibilità di scampo, per questo li rispettano estremamente.
Il Parco Hwange nello Zimbabwe
La superficie di Hwange è più vasta di quella di tutto il Belgio, è un parco dove ci si fonde con l’Africa quella da documentario, quella che sta nell’immaginario di tutti, con i suoi colori e le sue belve, con la sua bellezza mascherata da crudeltà e con la sua ciclicità. È il luogo che mi ha regalato i ricordi più belli del viaggio, come il tramonto con i bufali e gli elefanti di cui ho parlato all’inizio, come il safari notturno alla ricerca del grande felino, e quello alle cinque di mattina quando tra il freddo trafiggente la savana si risveglia. Il ricordo delle cene all’aperto, nella radura dell’hotel circondata da fossato e filo elettrificato, di fronte alla pozza d’acqua dove decine di animali, ad ogni ora del giorno e della notte, noncuranti della nostra fastidiosa, forse, presenza, andavano ad abbeverarsi.
Che bello è stato, quando alla sera dell’ultimo giorno, con l’orizzonte ormai quasi buio, mentre stavamo prendendo la via del ritorno dopo una giornata passata a seguire le tracce di una leonessa che non si è fatta vedere; finalmente la avvistiamo, immobile tra le fronde in lontananza, sdraiata su un fianco, ad osservare la valle.
Oramai stufa si incammina verso la pozza a bere e poi nella nostra direzione. È un’esperienza intensissima, le camminiamo al fianco, a poco più di un metro dall’auto, per più di centocinquanta metri, illuminandola con il faro e con il motore al minimo, sino a quando decide di tagliarci la strada e di proseguire nella bassa vegetazione dall’altro lato del sentiero a procurarsi la cena.
Era una settimana che aspettavamo di vederla, e finalmente è accaduto l’ultima sera, come fosse stata l’Africa tutta a volerci salutare in questo modo.
Bruno Tecci