Di Stefano Modena
L’Isola di Pasqua si trova a 3.600 chilometri dalle coste del Cile e a 2.000 chilometri dalle Isole Pitcairn. Si tratta di uno dei luoghi più remoti del mondo e, ammirando lo splendido mare che circonda quest’isola larga 13 chilometri e lunga 24, non ci si può che chiedere come hanno fatto i primi abitanti a scoprirla. Il segreto sta nelle “waca”, le canoe oceaniche dotate di una vela triangolare, con le quali i polinesiani colonizzarono le isole del pacifico a partire dal 1600 a.C.
Queste imbarcazioni erano velocissime, potevano percorrere dai 160 ai 240 chilometri al giorno, portare fino a 300 persone, piante e animali. Tutto l’occorrente per iniziare una nuova vita su un’isola. Eccellenti marinai, i polinesiani si orientavano con il sole e le stelle, cercavano di individuare le nuvole sopra le isole, osservavano la regolarità del moto delle onde. Inoltre, scrutavano l’orizzonte in cerca di uccelli marini, a bordo portavano maiali, che potevano sentire l’odore della terra a 40 miglia di distanza, e uccelli che liberavano dalle barche presumendo che, se non facevano ritorno, avessero trovato terra.
I primi colonizzatori, conosciuti come Rapa Nui, arrivarono su quest’isola, posta al vertice estremo della Polinesia circa mille anni fa, dando inizio alla colonizzazione. La chiamarono Te Pito o Te Henua, “l’ombelico del mondo”, e successivamente Rapa Nui, “Isola grande”. Lo sbarco avvenne sulla splendida Playa Anakena, uno dei pochi arenili, oggi pieno di bar, ristoranti e turisti che sguazzano tra le onde dell’Oceano.
All’epoca l’isola era coperta di palme e il ridotto numero di abitanti consentiva una vita felice. Nel 1200 gli isolani iniziarono la costruzione dei moai, le gigantesche statue di pietra. Secondo una teoria ormai abbandonata, queste imponenti sculture venivano trasportate utilizzando grandi quantità di palme come rulli, e ciò portò alla deforestazione dell’isola.
Secondo alcuni studiosi alla distruzione della foresta potevano aver contribuito i ratti, arrivati con i primi abitanti, che si cibavano di semi di palma e si moltiplicarono in assenza di predatori. In realtà i moai venivano legati con le corde e poi fatti ondeggiare in modo che “camminassero” fino ai villaggi. Le statue, arrivate a destinazione, erano collocate con le spalle al mare sulle apposite piattaforme chiamate Ahu, in modo che guardassero il villaggio.
Una volta sistemate, sopra le statue venivano collocati i “pukao”, copricapi o forse capelli scolpiti in una pietra rossa, che rappresentavano la pettinatura dei Rapa Nui e che aumentavano ulteriormente la già impressionante altezza conferendo loro ancora maggiore maestosità. Infine, venivano inseriti gli occhi di corallo bianco e vetro vulcanico, in modo che prendessero vita e emanassero il “mana” – la forza vitale o potere spirituale – tipico delle culture della Polinesia, in grado di collegare il mondo dei vivi a quello dei defunti. Il pukao aveva anche la funzione di amplificare il “mana”. Proprio di fianco a Playa Anakena si trova Ahu Nau Nau, in cui quattro dei sette moai hanno il pukao.
I moai venivano scavati nel tufo basaltico, relativamente friabile, presente solo nella cava di Rano Raraku, che spesso era distante anche molti chilometri dal villaggio di destinazione. Le loro dimensioni variavano dai 2,5 ai 10 metri d’altezza, con un peso che poteva arrivare a 80 tonnellate. Venivano scolpiti da un unico blocco di pietra utilizzando i “toki”, appositi attrezzi realizzati in basalto. A Rano Raraku si può ancora vedere “El Gigante”, una statua non terminata lunga 21 metri e pesante 270 tonnellate.
In circa 250 anni di lavoro i Rapa Nui hanno scolpito un migliaio di moai, dei quali circa 300 sono stati posizionati sulle Ahu e 400 sono rimasti nella cava, alcuni finiti e altri incompleti. Gli altri sono stati ritrovati nelle varie parti dell’isola.
Ahu Tongariki, situata a poca distanza da Rano Raraku, è il complesso che conta il maggior numero di moai, ben 15 posizionati su una piattaforma lunga 200 metri. Un altro, chiamato moai viaggiatore perché trasportato per essere esposto in Giappone, si trova al difuori dell’Ahu. Se oggi possiamo godere di questo meraviglioso spettacolo, lo dobbiamo alle attività di restauro eseguite negli anni ’90 da un gruppo di archeologi grazie a un accordo tra il governo cileno, l’Università del Cile e un produttore di gru giapponese. Infatti, forse per conflitti tra i diversi clan che abitavano l’isola o per forti terremoti, tra il 1700 e la seconda metà del 1800 tutti i moai furono abbattuti.
Secondo una teoria la causa potrebbe essere stata una reazione alla siccità che colpì l’isola durante molti anni, che fece credere ai Rapa Nui che gli dèi li avessero abbandonati e quindi per rabbia o per sfiducia i moai furono distrutti. Un’altra ipotesi presuppone che siano state le lotte tra i diversi clan abitanti sull’isola. Sappiamo che la popolazione, dopo il primo sbarco raggiunse i 3.000 abitanti. Con successivi sbarchi avvenuti nel 1400 aumentò ulteriormente, fino ad arrivare a 20.000, ma in seguito, diminuì fino ai 2.500 abitanti.
Intorno al XVII secolo il culto dei moai fu sostituito da una nuova religione, devota a una singola divinità, Make Make, il creatore. Il dio era rappresentato da una figura umana in posizione raccolta con la testa di uccello.
In suo onore si teneva ogni anno il rito Tangata Manu, l’uomo uccello, probabilmente il figlio primogenito di Make Make considerato l’incarnazione del dio e adorato nel villaggio di Orongo.
Il rito aveva anche uno scopo pratico, perché l’aumento della popolazione aveva portato a conflitti trai i vari clan dell’isola, e per ristabilire la pace fu trovata una soluzione molto particolare. I rappresentanti dei vari clan si dovevano sfidare nella complicata competizione per eleggere l’uomo uccello. Chi avesse vinto avrebbe avuto il diritto di governare per un anno.
Tra gli uomini più forti di ogni clan il capo sceglieva quelli che avrebbero preso parte alla gara. Settembre era il momento in cui un uccello migratore, la sterna fuligginosa, (“Manu Tara”), passava per l’isola fermandosi per nidificare. Partendo dal villaggio di Orongo, situato nei pressi del vulcano Rano Kau, i partecipanti alla gara dovevano discendere uno strapiombo, nuotare fino all’isola Motu Nui, andare a prender il primo uovo deposto dall’uccello e poi risalire la scogliera per riportarlo intero fino al villaggio. Non proprio una “passeggiata”!
Una processione guidata dallo sciamano riportava il vincitore al proprio villaggio e dopo tre giorni l’uovo, mescolato ad alcune erbe, veniva utilizzato per dipingere di bianco e rosso il nuovo Tangata Manu, che diventava sacro per tutto l’anno successivo. Ma soprattutto il clan del vincitore conquistava il diritto di controllare le scarse risorse dell’isola, raccogliere le uova deposte dagli uccelli sull’isola di Motu Nui e risiedere a Orongo per 5 mesi dei 12 mesi in cui governava l’isola.
Anche le danze appartengono alla cultura dell’Isola di Pasqua, come di tutte le altre isole della Polinesia e sono una parte importante delle tradizioni locali. I balli sono accompagnati da canti e musiche, e sono espressione di rituali religiosi e storie ancestrali. I danzatori indossano costumi colorati e decorazioni floreali, rappresentando con movimenti coreografici la storia e la mitologia dell’isola. Il Sau Sau, la danza dell’amore di origine samoana, è la più famosa e viene eseguita con movimenti sensuali da ballerine che indossano costumi di piume. L’Hoko, la danza della guerra, simboleggia la forza e il coraggio, e oltre ad essere utilizzata per intimidire i nemici viene utilizzata come danza di benvenuto.
I villaggi di Rapa Nui erano abitati da una decina di famiglie che vivevano in case fatte di pietra, canne e paglia. Su una base di roccia venivano scavati dei fori, nei quali si inserivano le canne per costruire un telaio a forma di canoa rovesciata, che poi veniva ricoperta di paglia. L’accesso era attraverso una piccola apertura che permetteva di entrare solo chinandosi.
Nel villaggio si trovavano anche dei pollai costruiti con i sassi e dotati di una piccola fessura che serviva anche da “antifurto”. I pollai venivano chiusi con pietre, ma solo il proprietario sapeva quali muovere per evitare che tutto crollasse. Nel villaggio c’erano anche i “manavai”, muretti che servivano a riparare le piante dal sole, dal vento e dal sale per proteggerne la crescita.
Oggi la maggior parte della popolazione vive nell’unica città dell’isola, Hanga Roa. Dei 7.000 abitanti, circa 3.000 discendono dai primi colonizzatori, gli altri sono arrivati soprattutto dal Cile per lavorare nel turismo, la principale attività economica. Sulla strada principale di Hanga Roa, l’Avenida Policarpo Toro, si affacciano attività commerciali, il Municipio e la Chiesa della Santa Croce di Pasqua. A pochi metri dal centro si trova il porto, nel quale sono ormeggiate molte barche e dal quale si parte per le escursioni in mare e le immersioni. Nei dintorni bar, ristoranti e spiagge permettono di godere del mare, offrendo ai surfisti il piacere di cavalcare le onde oceaniche.
Per quante avversità avessero affrontato i Rapa Nui dal loro sbarco, la peggiore sciagura fu l’arrivo degli europei. La domenica di Pasqua del 1722 il navigatore olandese Jacob Roggeveen approdò sull’isola, e la chiamò “Isola di Pasqua”. Nel 1770 una spedizione si presentò sull’isola per annetterla alla Spagna ribattezzandola Isola di San Carlos, ma in seguito non ne rivendicò mai il possesso.
Nel 1774 fu l’inglese James Cook a sbarcare a Rapa Nui e a disegnare la prima carta geografica dell’isola. Nel secolo successivo molti Rapa Nui morirono per le malattie portate dagli europei, e nel 1862 quasi la metà degli abitanti furono deportati in schiavitù in Perù, decimando la già ridotta popolazione, tanto che nel 1887 rimanevano solo 111 Rapa Nui.
Gran parte dell’isola fu comprata dal francese Jean-Baptiste Dutrou-Bornier con un suo socio inglese e trasformata in un pascolo. Il 9 di settembre 1888 venti capi tribù e il capitano della marina cilena Policarpo Toro si riunirono a bordo della nave Angamos per ratificare il documento di annessione al Cile.
Dal 2015 i Rapa Nui contestano quanto avvenuto in quell’incontro, sostenendo di aver ceduto la sovranità ma non la proprietà. I discendenti dei capi hanno formato un parlamento e iniziato un’azione legale presso l’ONU per farsi riconoscere come una colonia del Cile e farsi applicare le relative norme internazionali, con il fine ultimo di diventare uno stato associato, uno status che permetterebbe l’autogoverno e lo sfruttamento autonomo delle risorse dell’isola.
La maestosità dei moai trascina in un passato lontano che riporta ai problemi del mondo di oggi: la lotta per le risorse e il potere, il rapporto con la natura dalla quale dipende la vita.
L’Isola di Pasqua è un mondo a sé, tanto sperduta quanto affascinante, un ritorno alle origini della civilizzazione e un incontro tra culture.