Per quanto possa sembrare un accostamento azzardato, vi è una stretta correlazione fra ciò che in questi giorni leggiamo sulla crisi economica globale e quanto avvenuto all’interno dei singoli Paesi nel settore dell’aviazione civile per effetto della deregulation. Ma prima di spiegare questa relazione è necessario capire cosa sta accadendo nel mondo finanziario.  Non c’è da stupirsi se la maggior parte delle persone, attenta solo alle quotidiane notizie sugli interventi cosiddetti correttivi, perde di vista – o meglio non riesce a percepire – il disegno complessivo che si cela dietro i grandi avvenimenti mondiali.

 

La crisi finanziaria globale che ci investe, e la deregulation, sono figli del medesimo disegno. Entrambi gli avvenimenti sono contrassegnati dalla ritirata degli Stati, dalla loro abdicazione, dalla cessione delle competenze nazionali ad organismi sovranazionali con l’effetto che le autorità nominate nei singoli Paesi attraverso il tanto celebrato “voto democratico” all’atto pratico non possono far niente senza prima aver ottenuto il go signal di chi li controlla, e in ogni caso tutto ciò che fanno deve essere in linea con la politica che qualcun altro stabilisce.

L’assurdo dell’intera situazione in cui tutti ci troviamo immersi è che quando alla fine l’autorità nazionale prende provvedimenti, questi sono puntualmente contro l’interesse della popolazione che rappresenta, in quanto il primo obiettivo che il controllore impone è quello di far quadrare i conti nazionali, e a questo ordine i governi puntualmente intervengono, con l’immancabile frase è l’Europa che ce lo chiede.

Il dilemma di cui si dovrebbe dibattere –ma sul quale si preferisce glissare- è se sia più importante, più etico assicurare la quadratura del bilancio nazionale, cercando il rilancio della economia e quindi della ripresa, che non evitare di peggiorare la qualità della vita dei propri concittadini. Ed è davvero comico assistere agli appelli di Bruxelles che nel tempo stesso in cui invita gli Stati a prendere misure per pareggiare i bilanci nazionali inviti gli stessi a rilanciare l’economia: in pratica è come chiedere la quadratura del cerchio.

 

Per poter far digerire all’opinione pubblica una così incongruente situazione ove i singoli rappresentanti del popolo hanno le mani legate da un controllore sovranazionale, il quale fra l’altro non deve rispondere ad alcuno delle sue decisioni, ci è stato detto fino alla noia che ciò era l’ovvio prezzo da pagare per poter far parte di quella grande trovata che risponde al nome di unione monetaria europea.

 

Se la gente si svegliasse, se la gente si informasse e se la nostra televisione pubblica magari facesse dei servizi in merito, si verrebbe a scoprire che vi sono Stati i quali pur non avendo aderito all’Euro possono vantare una economia nazionale ed uno stato sociale floridi, leggasi ad esempio Norvegia e Islanda.

Ma non si tratta sic et simpliciter di aver mantenuto la propria moneta,  piuttosto ciò che più caratterizza questi Stati “eretici” è che essi non hanno cedute alle lusinghe della innovativa politica delle liberalizzazioni.  E’ questo il punto cruciale su cui riflettere, è questo il perno della intera questione.

 

Quando una nazione si deve disfare dei “propri gioielli di famiglia” che creavano occupazione, che venivano esportati, che davano lustro alla nazione e alla bilancia dei pagamenti, il Paese, qualunque Paese, si pone alla mercè di altre più potenti nazioni.

Non è certo un caso se l’Italia del boom economico è stata quella in cui accanto a una moneta nazionale c’erano industrie di primo piano i cui prodotti avevano conquistato i mercati mondiali quali Olivetti, Pirelli, Fiat, Montedison, Alitalia…. Ed erano gli anni in cui avevamo un governo che prendeva autonomamente le sue decisioni e rispondeva delle sue scelte agli italiani senza prendere ordini e bacchettate da Bruxelles, dalla BCE, dal Fondo monetario o dalle agenzie di rating.

Tutto ciò è oggi precluso ai governi nazionali mentre lo possono ancora fare i governanti di nazioni come l’Islanda e la Norvegia i cui conti, sarà bene sottolinearlo,  sono migliori dei nostri e di tanti altri Paesi.

 

Allorchè nei giorni passati i telegiornali ci raccontavano la tragedia vissuta dalla Norvegia per il folle gesto compiuto da Anders Behring Breivik, spero qualcuno abbia fatto caso al tenore dei commenti che accompagnavano i servizi: la benestante Norvegia…la Norvegia con le carceri vuote… la ricca Norvegia… la Norvegia dallo stato sociale invidiato…..la Norvegia che non ha voluto aderire all’Euro…  Ecco, gli italiani per apprendere che una nazione può vivere bene anche stando fuori dell’euro devono attendere che un folle compia una strage ed è allora che i nostri mass media si fanno sfuggire informazioni fino al giorno prima censurate ovvero di come si vive in Norvegia, una nazione che non ha voluto aderire all’Euro: ma non ci hanno sempre raccontato che senza l’euro chissà che fine avrebbe fatto l’Italia?

 

Ma procediamo con ordine. Quale è il percorso perverso che ci ha portato a questo imbarbarimento finanziario dove è più importante far quadrare un bilancio che pensare al benessere degli individui che compongono una nazione?  Da quando è iniziata la deprecabile occupazione da parte della finanza e della economia in spazi riservati tradizionalmente alla politica?

Tutto ha avuto inizio dagli anni 70/80 quando ciò che era regolamentato è stato sistematicamente smantellato lasciando completa libertà ai mercati nella assurda presunzione che essi si autoregolino da soli in modo perfetto.

A livello globale è stato lanciato l’ordine che gli Stati abbandonassero il controllo di settori-chiave, i quali però fino ad allora era normale fossero statali, come ad esempio telecomunicazioni, trasporto, sanità…,  improvvisamente il controllo dello Stato veniva presentato come nefasto e tale da non dare l’opportunità alle aziende di sviluppare appieno le loro potenzialità; l’imperativo per uno Stato che si voleva definire moderno, era privatizzare. Anche per questo passaggio non è mancato lo zuccherino ovverosia che privatizzando vi sarebbe stata più concorrenza.

La sirena ammaliatrice che ci ha accompagnato in questi ultimi decenni aveva uno solo nome: privatizzazione.

 

Crediamo di svelare il mistero dell’acqua calda affermando che quando uno Stato immette sul mercato una sua controllata in momenti in cui le casse della Nazione sono dissestate ovvero in deficit, l’azienda che si intende privatizzare non sarà venduta, ma svenduta.  E parlando di conti dissestati sappiamo bene come l’Italia fosse ai vertici europei.

 

Ma se qualcuno vende vi deve essere pure un acquirente, e guarda caso ai tempi in cui parte la moda delle privatizzazioni inizia a circolare con sempre più insistenza un termine abbastanza nuovo: i fondi…Termine misterioso che non fa capire assolutamente nulla di chi o cosa si celi dietro di esso. E sono i fondi, non i semplici privati che hanno un nome e cognome, che fanno man bassa di aziende messe in vendita.

E se si scava si troverà che dietro i fondi vi sono le multinazionali della finanza innovativa per la maggior parte legate a compagnie straniere, di Paesi cioè che già in casa loro avevano lanciato “l’ingegneria finanziaria” e non vedevano l’ora che si potessero fare acquisti anche all’estero, ma non pagando quello che l’azienda veramente valeva, ma a prezzo di realizzo.

E quale miglior momento di realizzo vi è di quello in cui gli euroburocrati impongono a uno Stato di accelerare le privatizzazioni e la riduzione del deficit, altrimenti viene bloccata l’erogazione degli aiuti  da parte dei fondi internazionali di pio soccorso?  Ecco in che modo gli Stati sono stati costretti a privarsi di tutte quelle aziende che nel passato costituivano la ricchezza di una nazione; ecco in che modo gli Stati, per usare un termine del Faust, hanno venduto l’anima ai grandi manipolatori della finanza mondiale.

Ma attenzione; quando tutto ciò è iniziato, già in partenza si sapeva che gli Stati i cui conti erano in condizioni critiche sarebbero diventati facile preda di altri, ma tutta l’operazione è stata camuffata ricorrendo al miraggio privatizzazioni/concorrenza inserito nella cornice della nuova finanza e della globalizzazione dei mercati.

 

Come in terra così in cielo, quando nel settore dell’aviazione civile è stata lanciata la deregolamentazione e le privatizzazioni delle aerolinee, puntualmente anche in questo settore si sono venuti  a formare tre megagruppi controllati dalle tre nazioni europee più solide, e tutti gli altri vettori, anche quelli una volta ex compagnie di bandiera, hanno assunto i connotati di sudditi il cui compito è quello di fare opera di feederaggio verso i feudi dei signori…. a Parigi,  Londra e Francoforte.

 

Antonio Bordoni