di Antonio Bordoni
Ovvero questioni non risolte che turbano gli equilibri del trasporto aereo commerciale
Nell’anno 1984 la UK Civil Aviation Authority raccomandò alla British Airways di dismettere un certo numero di rotte a favore della British Caledonian, in quel tempo secondo vettore del Regno Unito in ordine di grandezza. Scopo della raccomandazione era quello di instaurare un clima concorrenziale fra i due maggiori vettori del Paese. Nel 1988, quindi appena quattro anni dopo questa presa di posizione, il governo britannico autorizzava l’acquisizione della BCal da parte della British Airways che nel frattempo era stata privatizzata. Con l’avvenuta fusione la British Airways che già controllava uno share sulla UK capacity del 60 per cento, acquisendo il 15 per cento dello share di BCal arrivava a controllare il 75 per cento della capacità offerta da compagnie britanniche. Seguivano la Britannia con il 6,8%, la Dan-Air con il 5,1% e poi una decina di altre compagnie tutte con percentuali minori.
Passano gli anni arriviamo al 1990, spostiamo l’obiettivo e troveremo che anche l’Air France ha conglobato due compagnie francesi di notevoli dimensioni, Air Inter e UTA, ma almeno -questo va detto per amor di verità- il governo di Parigi non aveva mai fatto mistero di essere contrario sia alla deregulation come pure alle politiche anticoncorrenziali. Per quale ragione ricordiamo queste acquisizioni? Innanzitutto, contrariamente ad ogni logica, nel momento in cui l’Europa era pervasa dal contagio della deregulation che voleva significare togliere potere ai giganti del cielo e permettere l’accesso a nuovi entranti nell’ottica di avviare una concorrenza tariffaria, in quei paesi ove già era attivo un concorrente allo strapotere del vettore di bandiera locale, i governi si affrettavano ad autorizzare merger fra compagnie nazionali, quindi di fatto dando ancora più potere al proprio vettore di bandiera. Crediamo pertanto che il problema sia alquanto evidente: iniziavano a delinearsi i nuovi imperi dei cieli e ciò in aperto contrasto con i proclami del momento. Vi fu chi con notevole lungimiranza in tempi non sospetti denunciò, inascoltato, questi pericoli:
“the danger which is likely to result from all this new-found cooperation is a diminution of competition. Global deregulation will derive from applications of economic and political power. Two hundred years ago such a process was called mercantilism and it led to the formation of Empire. Today, the process is called marketing and it will lead to what? A global cartel?” (Airline Business, Aprile 1988, “The Twelve Brothers”)
L’epoca del monopolio Alitalia
Attraversando le Alpi e scendendo in Italia in quegli anni ciò non solo non sarebbe stato possibile per il più ovvio dei motivi e cioè che mancava un consolidato vettore da conglobare tale da far assumere ad Alitalia sinergie davvero significative, ma soprattutto perché anche se ci fosse stato, lo stato di diffusa “ribellione” dell’opinione pubblica contro il monopolio di Alitalia aveva raggiunto toni parossistici che ben difficilmente avrebbero reso possibile l’operazione di accorpamento. L’Alitalia infatti in quegli anni veniva presentata all’opinione pubblica come la compagnia monopolistica che vessava gli utenti con le sue esose tariffe. Chi non ricorda tabelle e articoli di quanto costava un nostro volo domestico di 1 ora, comparato con quanto costavano quegli stessi sessanta minuti di un volo domestico Usa?
Da sempre abbiamo espresso diffidenza verso simili accostamenti in quanto fatti trascurando ovvi parametri indispensabili per convalidare il raffronto. Per quale motivo un litro di carburante (e non solo il carburante bensì anche altri prodotti) costa molto di meno in alcuni paesi che si affacciano ai nostri confini rispetto ai prezzi praticati in Italia? La risposta è ben nota a tutti e dipende dal gravame fiscale e contributivo che pesa sulle nostre aziende rispetto a quello in vigore in altri Paesi. Stranamente questa osservazione nel caso delle tariffe domestiche praticate da Alitalia non veniva presa in considerazione, veniva semplicemente rimossa.
Di fatto le aziende che operano in Europa si trovano in condizioni di campo non livellato poiché ad una moneta comune che unifica diversi paesi, questi poi nel loro interno continuano a imporre percentuali fiscali e contributive autonome e differenti. Scendendo ad esempi esplicativi, a uno “staff related cost” annuo di 395 milioni di euro di Ryanair, la compagnia irlandese deve aggiungere nel suo bilancio 18.1 milioni di “social welfare” ovvero alla voce salari deve aggiungere solo il 4,6 per cento di costi sociali. Se andiamo al bilancio di Alitalia troveremo che ai 546.5 milioni di euro corrispondenti alla voce “salari e stipendi” l’Alitalia fra varie altre voci raggiunge un costo complessivo del personale di 709 milioni di euro, la forbice fra le due voci corrisponde al 29,8 per cento. Il bilancio di Air France, presenta una voce “wages and salaries” di 5430 milioni di euro con un ulteriore aggravio di 1761 milioni di euro di “social contributions” ovvero il 32,43 per cento.
Non crediamo sia affatto esagerato definire lo scenario alquanto variegato. Con queste differenze da sempre esistite come si può con certezza affermare che le tariffe domestiche applicate da un certo vettore sono “più care” di quelle di un altro paese? E se questa è la situazione all’interno della UE come si possono proporre paragoni fra i prezzi praticati da una compagnia italiana e una statunitense?
Ma un’altra ulteriore considerazione va ricordata. In tempi non computerizzati quando cioè le vendite venivano effettuate manualmente dagli uffici delle compagnie aeree lo scenario operativo era decisamente più livellato di quanto non lo sia oggi. Spieghiamoci con un altro esempio pratico. Una certa compagnia aerea voleva operare servizi da/per l’Italia. Non importa di quale paese fosse, poteva essere irlandese come indiana, ai nostri fini non ha importanza. Ebbene quella compagnia aerea apriva uffici a Roma, Milano e nei rispettivi scali avvalendosi di personale italiano il quale entrava a libro paga italiano e in pratica costava alla compagnia aerea straniera tanto quanto costava il personale di Alitalia in Italia. In poche parole quel volo operato dalla compagnia straniera da/per l’Italia -in termini di costi del personale- veniva a costare quanto quello operato da un vettore italiano.
Oggi invece accade che una compagnia aerea straniera che vuole operare in Italia non ha più bisogno di personale italiano di rappresentanza e tantomeno di vendita in quanto le emissioni biglietteria verranno effettuate tramite sito web della compagnia. Su tale aerolinea pertanto non graveranno più le spese del personale italiano bensì solo quello iscritto a suo libro paga il quale, per le ragioni che abbiamo suesposto, potrebbe essere di gran lunga inferiore di quanto viene a costare il personale del paese ove il vettore opera. Ricordando che insieme al costo del carburante la voce salari e stipendi è una delle voci di maggiore incidenza sui costi di una aerolinea appare evidente che quel vettore potrà immettere sul mercato tariffe più basse dei suoi concorrenti. Ma questa possibilità lungi dall’essere la risultante di una politica più efficiente o virtuosa non deriva altro che dal regime fiscale più favorevole in vigore nel suo paese di appartenenza.
Ebbene tutto ciò non corrisponde affatto a quello che ci è stato fatto credere con l’avvento della deregulation ove in pratica si diceva che i vettori “inefficienti” sarebbero scomparsi per far posto a quelli più virtuosi, volendo con ciò intendere che chi “sprecava” il proprio revenue con inefficienze gestionali sarebbe scomparso. E l’Italia -paese ai vertici delle graduatorie mondiali per pressione fiscale e contributiva- non favorisce di certo la vita delle sue aziende quando queste sono chiamate ad operare in mercati così dislivellati.
Questa anomala situazione di asimmetrie fiscali vigenti in Europa è ben nota a tutti prova ne sia che ogniqualvolta si vuole attaccare Ryanair per la questione del personale basato in Italia non si perde occasione per ricordare che il vettore regola i suoi conti esclusivamente con le regole irlandesi le quali prevedono prelievi decisamente più bassi dei nostri. E’ davvero paradossale però che stesso metro di giudizio non sia mai stato usato allorchè si accusava Alitalia di praticare tariffe aeree nazionali più care rispetto a quanto fatto negli altri paesi.
E proprio sul discusso argomento dei contributi Ryanair val la pena approfondire ulteriormente la situazione. Le cifre di Ryanair che abbiamo sopra riportato:
Staff and related costs 395.0 milioni di Euro
Social Welfare costs 18.1
Totale 413.1
Incidenza costi sociali su totale spese salari 4,38%
si riferivano all’anno fiscale che chiudeva al 31 marzo del 2012 (allo stesso anno si riferivano anche quelle degli altri vettori). La data non è stata scelta a caso dal momento che proprio nell’anno 2012 sull’argomento vi sono state novità normative di rilievo. A maggio 2012 il Parlamento Europeo approvava la legge riguardante il pagamento di contributi e salari stabilendo che gli stessi vengano liquidati secondo le regole vigenti nel paese in cui i dipendenti si trovano a lavorare. Per inciso va ricordato che in quello stesso anno da noi in Italia venne varato quello che fu soprannominato “il decreto anti-ryanair”. Ebbene con tutti questi presupposti era lecito attendersi che nei successivi bilanci di Ryanair quella ridotta forbice del 4,38 per cento fosse destinata a impennarsi.
Uno sguardo al bilancio chiuso da Ryanair al 31 marzo 2014 indica invece una situazione opposta, con la forbice addirittura diminuita:
Staff and related costs 441.5 milioni di Euro
Social Welfare costs 18.7
Totale 460.2
Incidenza costi sociali 4,06%
Come mai, perché questo risultato del tutto sorprendente? La risposta è riportata a pagina 56 del bilancio Ryanair:
“Under the terms of this new legislation, employees and employers must pay social insurance in the country where the employee is based. The legislation includes grandfathering rights which means that existing employees (i.e. those employed prior to the introduction of the new legislation in June 2012) should be exempt from the effects of this legislation for a period of 10 years up until 2022.”
In poche parole le regole sono state varate ma per esplicare I loro effetti dovremo attendere il 2022 !
Anche tale pericolo era stato previsto e annunciato, ma anche in tal caso si è preferito adottare la politica dello struzzo: “A differenza degli Stati Uniti d’America gli Stati membri della Comunità Europea non hanno gli stessi regimi normativi, a cominciare dalla legislazione del lavoro e sociale. Dallo spessore di garanzia del welfare state che queste legislazioni nazionali contengono dipende spesso l’ampiezza di taluni centri di costo importanti. Poiché la carta della concorrenza si gioca proprio sul terreno dei costi e della produttività, non potrebbe esistere equilibrio se non si procedesse ad azioni di armonizzazione.”
Questa era l’opinione che Alberto Lassandro e Aldo Sansone, due alti dirigenti di Civilavia, esprimevano su un documento di Air Press nell’anno 1989 (Alberto Lassandro, Aldo Sansone “Il pacchetto di misure comunitarie sui servizi di trasporto aereo”) quando la deregulation europea doveva ancora entrare in vigore nella sua pienezza.
E allora, in uno scenario ove coscientemente si è fatto di tutto per distruggere le regole che permettevano di operare in un campo livellato, per favore facciamola finita di meravigliarci se oggi ci sono compagnie che fanno più soldi e danno più occupazione nel loro paese, ed altre che invece si trovano con conti disastrati.