Riprendiamo da questo numero la rubrica che tratta problemi riguardanti il rapporto di lavoro.
Quando decidemmo di interromperla, per dedicarci esclusivamente ad aspetti tecnico-operativi dell”industria aerea,  non credevamo che il mondo del lavoro, la decifrazione della busta paga, i rapporti datore-dipendente, e in generale l’interpretazione delle leggi concernenti le regole che governano il rapporto di lavoro potessero subire un deterioramento così marcato come in effetti è avvenuto. E l’argomento con cui riprendiamo la rubrica ne è un caso eclatante.
Crediamo quindi che sia opportuno riavviare la rubrica per cercare di illustrare ai lettori gli argomenti più controversi che ultimamente, a ritmo davvero sostenuto, hanno interessato il mondo del lavoro.

La voce “ferie” era una volta estremamente semplice. Ogni contratto prevedeva un allotment di X giorni per ogni anno di servizio; l’impiegato ne usufruiva tanto quanto desiderava, ed eventuali rimanenze si portavano a riporto per l’anno successivo. Ricordiamo anche che c’erano colleghi a cui i giorni di ferie non bastavano mai, altri invece per i quali la direzione doveva sudare le sette camicie per far prendere qualche giorno e che puntualmente continuavano ad accumulare residui, anno dopo anno.
In entrambi i casi comunque, non era affatto un problema, né per gli uni né per gli altri poiché, alla fine del rapporto di lavoro, i giorni eventualmente non goduti si pagavano insieme alle indennità di fine rapporto, mentre se qualcuno al contrario ne aveva presi in eccedenza, gli stessi venivano detratti sempre dalle spettanze finali.
Diciamo pure che almeno nelle compagnie straniere, le quali erano alquanto “tirate” nell’assunzione di nuovo personale poiché ogni qualvolta si andava in ferie il lavoro si fermava e rimaneva indietro, era la stessa direzione che non si opponeva affatto all’ipotesi che l’impiegato preferisse rimanere in servizio anziché andare in vacanza.
Ebbene, forse proprio perché tutto era troppo chiaro e trasparente, anche questo istituto contrattuale è stato oggetto delle attenzioni del legislatore subendo notevoli cambiamenti delle norme applicative.
Come è noto, in linea generale, si era sempre detto che le ferie erano irrinunciabili: è addirittura la Costituzione a specificarlo all’articolo 36.
Il diritto alle ferie matura annualmente in base al servizio prestato, ricorrendo ai ratei anche se non è maturato il primo anno di anzianità.
Il contratto Fairo stabilisce ad esempio (art. 14.4) che “al personale che non abbia maturato il diritto all’intero periodo di riposo per non aver compiuto un anno di servizio, deve essere concesso, per ogni mese di servizio prestato, un dodicesimo del periodo di ferie di cui al punto 14.1. La frazione di mese pari o superiore a 15 giorni è a tal fine considerata come mese intero. La frazione di mese inferiore a 15 giorni sarà, a questo effetto, trascurata”.

Le ferie durante il periodo di prova

La Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla possibilità di poter andare in ferie durante il periodo di prova.
Per quei dipendenti infatti che sono così arditi da richiedere le ferie durante la prova – fatto questo che noi personalmente sconsigliamo – la sentenza n. 189 del 1980 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 2109 del Codice Civile laddove esse prevede il non diritto alle ferie durante il periodo di prova.

Le ferie maturano anche nei periodi di assenza che danno diritto alla conservazione del posto; rientrano sotto questa fattispecie l’assenza per malattia, congedo matrimoniale, infortunio eccetera.
Fatto un rapido excursus delle principali norme che regolano questo istituto, passiamo a commentare le ultime novità.

Dove sono sorte le complicazioni?
La legge n. 66/2003 al suo articolo 10 stabilisce che ogni lavoratore ha diritto ad un periodo di ferie annue non inferiore a 4 settimane, ferme restando eventuali condizioni di miglior favore. La novità consiste che nell’ambito di questo periodo le ferie devono essere effettivamente usufruite. È stato quindi creato questo lasso di tempo, quello delle quattro settimane, al quale è impossibile rinunciare, essendo vietato sostituire ad esso l’indennità monetaria di ferie non godute, la quale invece rimarrebbe ancora valida per i periodi di ferie non usufruite che eccedono le quattro settimane.
Con la legge in questione viene pertanto imposto al lavoratore e al datore di prendere obbligatoriamente questo periodo di ferie.
Ora appare abbastanza evidente come sia difficile trovare datori di lavoro che vietavano ai propri dipendenti di andare in ferie; molto più logico presupporre che nel caso il dipendente non avesse usufruito di tutte le sue ferie annuali, ciò dipendeva innanzitutto da un mutuo accordo che nella maggior parte dei casi faceva comodo ad entrambe le parti in causa.
Quello che deve preoccupare è l’escalation di imposizioni tendenti a vietare tutti quegli atti che potrebbero permettere ai dipendenti di ottenere qualche vantaggio monetario – sia pur a fronte di indubbi sacrifici – nel corso del suo rapporto di lavoro.
A cosa tende infatti il vietare il lavoro straordinario, o legare la sua effettuazione a complicate procedure di comunicazione fatte agli ispettorati del lavoro?
A cosa tende vietare al dipendente di rimanere in servizio, anziché andare in ferie, e farsi pagare le ferie non usufruite?
È fin troppo agevole intravedere in questa politica di divieti, innanzitutto una restrizione della libertà negoziale che pure dovrebbe essere alla base di un normale rapporto instauratosi fra datore e lavoratore, la quale restrizione tende in ultima analisi a non dare l’opportunità ai dipendenti di arrotondare il loro salario.
Insomma, una volta che si ha l’opportunità di avere un posto di lavoro, cosa c’era di male se, per arrotondare lo stipendio, il dipendente faceva straordinari o rinunciava, di sua spontanea volontà, a qualche giorno di ferie?
Di certo una regolamentazione era necessaria se si fossero verificati ripetuti casi nei quali al lavoratore veniva vietato dal proprio datore di prendere le vacanze, ma dal momento che non ci risulta che questo problema sussistesse, questo morboso interesse del legislatore a voler restringere la capacità decisionale dei datori e dei lavoratori nello svolgimento del rapporto di lavoro, è davvero inopportuna.
Tutto quanto fin qui detto vale ipotizzando un rapporto di lavoro che riesca a giungere al capolinea del 12mo mese di esistenza, perché la legge – bontà sua – precisa che nel caso il rapporto di lavoro venga ad estinguersi nel corso della maturazione dell’anno, allora in questo caso al dipendente spetta l’indennità di ferie per le giornate non godute.
Questo obbligo di andare in vacanza e non monetizzare le ferie, potrebbe forse indurre qualcuno a ritenere che il legislatore tiene alla nostra salute e considera le giornate di ferie come indispensabili a quel recupero psico-fisico che ogni tanto viene tirato in ballo.
Ma come vedremo da quanto segue, non è proprio così…

Le Ferie monetizzate sono tassabili?

La questione ha appassionato gli studiosi di diritto del lavoro per parecchi anni.
Rifacendosi all’articolo 36 della Costituzione, rifacendosi alla irrinunciabilità delle stesse più volte richiamate nella giurisprudenza, ricordando che le ferie hanno lo scopo di permettere il reintegro psico-fisico, una parte della dottrina sosteneva che l’indennizzo di cui il lavoratore usufriva non andasse tassato in quanto esso presentava caratteristiche risarcitorie  piuttosto che retributive.
Una tale impostazione sarebbe peraltro in sintonia con quanto stabilito dalla recente legge 66/2003 che sopra abbiamo commentato, poiché il fatto che il legislatore abbia voluto imporre l’imperativo di andare assolutamente in ferie almeno quattro settimane all’anno, potrebbe voler significare che le ferie sono davvero indispensabili a mantenere in salute il lavoratore.
E invece, tanto per cambiare, è tutto il contrario.
Un dipendente che al termine del suo rapporto di lavoro aveva ricevuto, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, anche l’indennità per ferie non godute, ha fatto ricorso alla Commissione Tributaria poiché sosteneva che l’indennità in questione non andasse assoggettata ad Irpef in quanto avente natura risarcitoria. La Commissione Regionale della regione Lombardia ha accolto i ricorso, ma il Ministero Finanze ha avanzato controricorso sostenendo che la decisione della commissione violava la legge.
Ebbene la Corte di Cassazione (12312/2001) ha accolto il ricorso sostenendo che l’indennità per ferie non godute ha natura retributiva, e come tale va regolarmente assoggettata all’Irpef.
Alla base della decisione, la scontata giustificazione che l’indennità in questione trae la sua specifica origine dal rapporto di lavoro instauratosi fra le parti.
Tuttavia va osservato che anche riconducendo l’indennità in questione nell’alveo del rapporto lavorativo, non ne discende per questo in maniera automatica e scontata che qualsivoglia somma che venga elargita nell’ambito del rapporto stesso, non possa assumere significati differenziati e/o corollari.
Se le ferie hanno lo scopo primario del reintegro psico-fisico, la loro usufruizione materiale rientrerà pure nell’ambito del rapporto, ma una eventuale non usufruizione, con sostituzione della monetizzazione, ben potrebbe configurarsi come indennità avente mere caratteristiche risarcitorie.

Antonio Bordoni