Questa volta, anziché scrivere il mio solito editoriale, ho preferito pubblicare una lettera inviata dall’Avv. Giovanni Cattivera a Luca Manchi, titolare di Karisma Travelnet. Il testo della missiva riguarda una Sentenza di Corte di Cassazione emessa su un problema che, purtroppo, affligge il mondo del turismo e che riguarda il famigerato “danno da vacanza rovinata”. Danno del quale i clienti stanno abusando in maniera “spudorata”, aiutati anche da Avvocati che si prestano ad iniziare cause che, l’abbiamo già detto altre volte, qualcuno dovrà alla fine pagare – e non sempre è il T.O. o l’ADV. Poiché non ci risulta che questa sentenza sia stata divulgata da qualche Associazione di categoria o che gli ADV e i T.O. ne siano al corrente, ringraziamo sia Luca Manchi, che ci ha dato questa importante notizia e si è interessato anche di diffonderla, sia l’Avv. Giovanni Cattivera, autore della lettera di seguito riportata, che non solo si è dimostrato molto attento alle problematiche del settore, ma ci sta permettendo di aprire gli occhi su uno “spauracchio” che ha – fino ad oggi – quasi sempre penalizzato la categoria degli ADV e dei T.O.

Oggetto: Sentenza Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili n. 26972/08.   Esiste ancora il danno da “vacanza rovinata” ?

Ritengo opportuno segnalare l’importante decisione in oggetto che riveste particolare interesse anche per gli operatori del settore turistico in relazione al c.d. “danno da vacanza rovinata“.

Com’è noto tale figura di danno è il risultato di diverse teorie interpretative,  (recepite appieno dalla giurisprudenza, specialmente dei Giudici di Pace), che, avendo come base comune la necessità di tutelare il benessere o lo svago dell’uomo moderno – ritenuto vittima del quotidiano eccesso di stress provocato dai frenetici ritmi di lavoro generati dalla richiesta di massima produttività e dalla necessità di garantirsi un soddisfacente tenore di vita  – hanno individuato delle categorie normative alle quali ricondurre la legittimità della tutela risarcitoria di eventuali pregiudizi che questo particolare interesse al “relax” potesse subire.

 

C’è chi ha affermato la natura patrimoniale di tale voce di danno, interpretando il benessere quale una delle prestazioni oggetto del contratto di viaggio e, dunque, il venir meno di tale requisito quale un inadempimento dell’organizzatore o della agenzia venditore dei servizi turistici. Tale opinione non ha incontrato il favore della giurisprudenza che ha escluso la sussistenza di una obbligazione del venditore o dell’organizzatore a “far divertire” il viaggiatore ed ha ribadito che il danno patrimoniale è connotato da una effettiva diminuzione economica del soggetto leso.

 

Miglior fortuna ha avuto la tesi della natura non patrimoniale del danno da “vacanza rovinata”, divisa tra coloro che hanno sostenuto l’appartenenza di tale pregiudizio alla sottocategoria del “danno morale” (e cioè quel tipo di pregiudizio individuato nel sofferenza soggettiva transeunte)  altri che hanno preferito includerlo nella diversa sottocategoria del “danno esistenziale” (e cioè quel tipo di pregiudizio attinente alla sfera del fare non reddituale del soggetto).

 

Tanto per comprenderci il “danno non patrimoniale”, la cui risarcibilità è consentita nel nostro ordinamento dall’art. 2059 codice civile, comprende tutte quelle ipotesi in cui viene in gioco una lesione di interessi inerenti la persona non rilevanti economicamente. In altre parole quando tale pregiudizio si manifesta non si apprezza alcuna diminuzione patrimoniale né a titolo di  “danno emergente” né di “lucro cessante”.

Al tempo della emanazione del codice civile l’unica figura di danno non patrimoniale (che come recita l’art. 2059 deve essere risarcito solo nei casi previsti dalla legge) era quella individuata dall’art. 185 del codice penale del 1930 (danno discendente da reato, pecunia doloris, risarcimento della sofferenza provocata dal turbamento d’animo della vittima del reato).

La successiva giurisprudenza, sino alle note sentenze gemelle della Suprema Corte  8827 e 8828 del 2003, si è affinata individuando la sussistenza di tale voce di danno ogniqualvolta si assista alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, anche al di fuori dell’ipotesi di reato ma comunque tale da compromettere valori costituzionalmente o normativamente garantiti.

                                                                                                                                                                           

Sulla base di tali principi aveva già visto la luce la figura del c.d. “danno biologico” che identifica la lesione alla integrità psichica o fisica della persona ovvero il diritto alla salute; così sono anche tutelate: la privazione della libertà personale cagionata dall’errore nell’ esercizio di funzioni giudiziarie; la violazione della privacy; l’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; il mancato rispetto del termine di durata ragionevole del processo; i diritti inviolabili della famiglia; la reputazione, l’immagine, il nome e così via.

Da notare che in questi casi il danno non patrimoniale è tutelato dall’art. 2059 c.c. in riferimento ad ipotesi normativamente o costituzionalmente garantite. E non potrebbe essere il contrario dal momento che, come già detto, il risarcimento di tale voce di danno è connotato da tipicità (…solo nei casi previsti dalla legge).

 

Orbene operata tale necessaria seppur breve premessa vi è da dire che la Suprema Corte a Sezioni Unite nella sentenza in oggetto ha espressamente escluso nel nostro ordinamento la possibilità di individuare le “sottocategorie” di danno non patrimoniale denominate “danno esistenziale” e “danno morale”.

A pag. 26 del provvedimento si legge: “Al danno esistenziale era stato dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere della persona: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto….ed ancora a pag. 27: “Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828 /2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni Unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, DI DANNO ESISTENZIALE COME AUTONOMA CATEGORIA DI DANNO NON E’ PIU’ DATO DISCORRERE”.

Da questo punto in poi la Suprema Corte continua nel ripetere sempre il medesimo concetto ben riassunto a pagina 30: “SE NON SI RISCONTRA LESIONE DI DIRITTI COSTITUZIONALMENTE INVIOLABILI DELLA PERSONA NON E’ DATA TUTELA RISARCITORIA”.

 

Conviene ora soffermarsi a riflettere se il trascorrere una vacanza o effettuare un viaggio di piacere che dir si voglia possa qualificarsi come un diritto costituzionalmente inviolabile della persona.

 

Nella nostra carta Costituzionale assume rilievo il diritto alla salute (art. 32) che, è evidente, non può essere identificato con un “diritto alla vacanza” o “diritto al relax“. Il viaggio organizzato non può essere paragonato ad una cura per una patologia da stress e dunque l’organizzatore ed il venditore non possono essere ritenuti responsabili anche dei pretesi disagi per la mancata fruizione di un periodo di riposo se per qualsiasi  motivo il viaggio non può essere effettuato o se durante il periodo di vacanza qualsiasi evento turba in qualche modo il corretto svolgimento della stessa.

Sul punto la Corte Suprema è stata molto chiara laddove, nel provvedimento che ci occupa, a pag. 34 si dice: “Palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie, ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere , alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale”.

Nè, come qualcuno ha detto, si può dilatare a dismisura l’art. 2 della Costituzione sino ad interpretare la vacanza come uno degli ambiti in cui l’individuo ha diritto di svolgere la propria personalità.

 

In ultima analisi la vacanza non può qualificarsi come un diritto inviolabile della persona e sarà assai difficile per i giudici del merito, dopo tale sentenza, motivare la sussistenza del danno da “vacanza rovinata” e liquidarne l’entità risarcitoria.

 

Da ultimo la sentenza in oggetto fuga ogni dubbio interpretativo anche riguardo la legittimità della tesi che “pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza,e non al diritto leso” ed altresì della tesi secondo la quale “il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante”.

Entrambe, per la Suprema Corte, sono insostenibili, dunque nessuno spazio per il nostro “danno da vacanza rovinata” attraverso tali porte: nessuno potrà più considerarlo come mero pregiudizio sofferto consistente nell’alterazione del c.d. “fare areddituale”  senza avere riguardo alla lesione di un qualche interesse costituzionalmente garantito; nè come nascente dalla lesione di un qualsiasi bene giuridicamente rilevante (anche non costituzionalmente garantito).

 

Ulteriore barriera preclusiva nei confronti del “danno da vacanza rovinata” è rappresentata poi dalla gravità dell’offesa ritenuta dalla Suprema Corte: “.. requisito ulteriore per l’ammissione al risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili”.

Troppe volte abbiamo letto di viaggiatori infastiditi dalla presenza di volatili nella sala di pranzo di ristoranti compresi in lussureggianti giardini caraibici (dove tra l’altro gli uccelli sono specie protette) ovvero dalla presenza di “geghi” in bungalows over-water a Bora – Bora. Altri si sono lamentati dell’assenza di musica europea nei locali di Santo Domingo o della eccessiva presenza di zanzare o del pienone nella piscina dell’albergo il giorno di ferragosto.

Dice la Suprema Corte: “la lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza (…) il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile”.
                In genere il tratto che contraddistingue il viaggiatore è la intolleranza verso qualsiasi minimo disagio.

 

Da ultimo la Suprema Corte ha chiarito nella sentenza in esame che: “il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato”.  

Nessun ulteriore spazio dunque a liquidazioni del danno da vacanza rovinata, quand’anche ancora esistente, che ritengano il medesimo come “danno – evento”o “danno in re ipsa”. Anche in caso di ricorso alla prova presuntiva: “il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nelle concrete fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto”.

Avv. Giovanni Cattivera