Per chi ancora non l’ha fatto, per chi ancora non ha sognato tra “Le nuvole”, per chi vuole provare suggestioni ed emozioni inedite: fino al 30 maggio, al Museo dell’Ara Pacis rivivono la musica, la vita, le passioni di Fabrizio De Andrè. Studio Azzurro, uno dei più importanti gruppi internazionali che video arte, ha curato la narrazione virtuale, multimediale e interattiva dell’universo “Faber”. La mostra affronta i grandi temi della poetica di De Andrè: la società del benessere e il boom economico degli anni ’60, gli emarginati e i vinti, la libertà, l’anarchia e l’etica, gli scrittori e gli chansonnier, le donne e l’amore, la ricerca musicale e linguistica, l’attualità nella cronaca, i luoghi rappresentativi della sua vita.
De Andrè diceva: ” Non chiedete a uno scrittore di canzoni cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera”. E l’opera di De Andrè all’Ara Pacis è come un percorso che si confronta con il suo pensiero, come un ricreare la costellazione delle sue tematiche, dei suoi personaggi prediletti e delle sue intuizioni. Attraverso le canzoni di De Andrè si può parlare di Genova, dell’Amore e delle Donne, dell’Anarchia e della Libertà, degli Ultimi, persino della Morte e della Guerra. Ha detto Umberto Croppi, Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma: “Questo omaggio a Fabrizio De Andrè rappresenta un vero e proprio atto di riconoscenza che Roma dedica a un poeta sinceramente amato. Il pubblico della nostra città lo adorava, i suoi pochi concerti erano sempre gremiti di spettatori di ogni età, come se la memoria e l’utopia, che magicamente coabitavano nelle sue canzoni, riuscissero a restituire ai nostri luoghi la loro simbolica perennità. Come tutti gli artisti che, per loro stessa natura, erano incapaci di aderire pienamente a un’idea e men che meno di riconoscere forme di potere e autorità, il postumo destino di Fabrizio De Andrè è stato quello di appartenere, senza distinzioni, alla gente comune. Anarchico senza cedimenti, solidale e mai ipocrita, eterogeneo e irriducibile, mai omologato ad alcun sistema di pensiero, De Andrè ha saputo illustrare la nostra letteratura novecentesca perché la sua voce seppe cantare la libertà intesa come eterno desiderio, come rivolta interiore, come voglia di credere in altre idee, ancora da concepire”. Nelle sale dell’Ara Pacis si snoda una narrazione multimediale che s’inoltra nella fitta trama delle parole del cantautore, rintracciate nelle poche interviste televisive, nelle molte canzoni e tra gli infiniti appunti, e va incontro ai visitatori per reagire ai loro gesti e alle loro scelte. Grazie a moderne tecnologie il visitatore può guidare il gioco e farlo suo; alle suggestioni interattive si accompagnano oggetti, ricordi materiali come manoscritti, libri annotati, dischi, matrici fonografiche, locandine, fotografie, strumenti musicali ed elementi scenografici. Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica, Pepi Morgia, curatori della mostra, invitano a lasciarsi coinvolgere da queste suggestioni interattive: “ tutt’altro che scaglie mute del passato, ma voce viva, materia in movimento, cibo per il cuore e per la mente, per chi ama da sempre Fabrizio e per chi, anagraficamente sfortunato, non ha neppure fatto in tempo a vederlo in concerto. La sua intelligenza aveva trovato fiato nella forma della canzone. Attraverso questa ha sempre cercato di risvegliarci dal sonno della coscienza, dall’appiattimento programmato di un pensiero sbrigativo e di comportamenti asserviti. Con rabbia, con satira feroce, con semplice genialità, con quella sua dolce anarchia per ricordarci, in ogni modo, di pensare con la nostra testa”. Tracce di vita, cibo per il cuore e per la mente, nella nicchia sotto il monumento dell’Ara Pacis: dai primi bigliettini scritti alla madre Luisa, in cui Fabrizio cerca di giustificare e di invocare perdono per le sue mancanze scolastiche, una biografia del cantante stilata a mano dalla madre per i giornalisti, alcuni libri e agende disseminati di appunti di lavoro e di citazioni annotate, una sua lettera al poeta Mario Luzi, una lettera drammatica al padre Giuseppe scritta durante la prigionia sul Supramonte. Per quella dolorosa esperienza, Dori Ghezzi ricorda: “ Una delle grandi qualità di Fabrizio è che non è mai stato moralista, non ha mai apprezzato il perbenismo e ha sempre cercato di capire le debolezze umane. Dopo l’esperienza del sequestro ha avuto un atteggiamento di grande comprensione nei confronti di chi ci aveva privati della nostra libertà per ottenere un riscatto. La pietas umana era per lui un elemento essenziale per conoscere il prossimo, ed è sempre stata al centro della sua poetica. Fabrizio è sempre stato molto coerente, non ha mai detto una cosa in cui non credesse veramente”. Fabrizio cantautore, poeta, giullare, ha dipinto così i suoi tempi e i nostri, come un affresco forte e inquietante, ricordando che “ solo l’amore e la solidarietà possono salvare il mondo, perché è la mancanza di pietà che trasforma la nostra vita in un lungo cammino di morte”.
Antonella Pino d’Astore