Quanto deciso dal tribunale francese in merito all’incidente del Concorde occorso il 25 luglio 2000 durante la fase di decollo dal Charles de Gaulle, rappresenta un pericoloso precedente nella storia dell’aviazione civile e dimostra purtroppo come il buon senso sia ormai completamente estraneo a questo pianeta. Quel giorno il supersonico dell’Air France prese fuoco e si schiantò a terra provocando la morte di 113 persone, 109 passeggeri più 4 persone a terra. Le investigazioni tecniche condotte dalla BEA (Bureau Enquetes Aéronatiques) appurarono che l’incendio del velivolo era stato causato da un pezzo di metallo che si trovava sulla pista dalla quale il Concorde era stato autorizzato al decollo. La lamella di titanio incappata nel carrello aveva messo in moto una catena di eventi che aveva portato all’innesco di incendio del carburante.
Chi si era persa la lamella incriminata? Un velivolo Continental decollato poco prima, ergo la responsabilità del disastro va rigirata su quest’ultima.
Non si è fatto attendere il commento del vettore statunitense che in un suo comunicato si è dichiarato in profondo disaccordo con il verdetto della corte preannunciando ricorso e specificando “come il fatto di additare il pezzo di metallo come la causa dell’incidente, la Continental, uno dei suoi impiegati (certo John Taylor) come gli unici responsabili dell’incidente mostra la determinazione delle autorità francesi di rimuovere l’attenzione e la responsabilità da Air France”.
In base alla sentenza la compagnia statunitense è stata chiamata a pagare 200.000 euro di multa nonché a rifondere a Air France 1 milione di euro per il danno subìto alla sua reputazione. Ma se pure questi aspetti sono indubbiamente rilevanti e su di essi si accentrata l’attenzione della stampa (qualche titolo si è spinto fino ad affermare “Concorde esploso, colpa degli Usa”) ben altri sono i risvolti su cui il processo ha accentrato l’attenzione degli esperti del mondo aeronautico.
Nel settore sono molti i punti di riflessione aperti, non tanto dalla sentenza definitiva, quanto piuttosto da ciò che il processo ha significato. Si è trattato infatti di un palese caso di criminalizzazione delle investigazioni aeronautiche.
Forse non tutti sanno che la regola che dovrebbe vigere in questo settore, la quale è stata adottata da decenni e che in questi ultimi anni sembra venir messa in discussione, è che – eccettuati i casi di dolo e di sospetto terrorismo – non si ravvedono i motivi di impiantare simili processi.
L’aviazione civile svolge un servizio pubblico; aerolinee e relativi aeromobili volano solo se certificati e approvati dagli enti di controllo di cui ogni Stato dispone, le aerolinee non possono operare se non hanno polizze di assicurazione valide che coprano i passeggeri e terzi per eventuali danni prodotti nell’esercizio della attività; ebbene in caso di incidente aeronautico al di là delle due ipotesi da noi prospettate, l’istruttoria e le indagini devono venir condotte da organismi tecnici i quali puntano in via primaria a determinare non il colpevole, ma cosa è successo, e come fare per evitare il ricorrere dello stesso evento.
Fra l’altro è proprio l’agilità istruttoria e l’alta professionalità di questi enti a far si che le indagini non subiscano i ritardi dei tempi biblici che la comune giustizia, inesperta in argomenti tecnici aeronautici, necessita per poter concludere i processi in questione.
Proprio a gennaio del 2010, in vista della sentenza del tribunale francese, la International Society of Air Safety Investigators (ISASI), una associazione che comprende gli esperti di indagini aeronautiche, aveva diffuso un comunicato-risoluzione riguardante specificatamente la criminalizzazione degli incidenti aerei, avvertendo come i membri e il comitato esecutivo dell’associazione “ritengono che l’attuale trend di criminalizzare gli incidenti aerei ha un effetto deleterio sulle investigazioni stesse che seguono un incidente, sulle indagini, sui risultati dei suoi fattori contributivi nonché sulla formulazione delle raccomandazioni per evitarne il ripetersi”.
Come si può ben vedere, il processo francese in questione presenta risvolti e significati ben più profondi della “semplice” determinazione del colpevole.
E in merito a quanto avvenuto sulla pista del Charles de Gaulle vorremmo annotare una nostra personale considerazione. Fra le due ipotesi in ballo, quella sostenuta da Continental che il Concorde aveva preso fuoco prima dell’impatto con il corpo estraneo, e quella opposta che è stata proprio la lamella a determinare il disastro, rimane il fatto che la pista di volo è una struttura aeroportuale la cui utilizzabilità e “pulizia” da corpi estranei (non ultimi i volatili che provocano i ricorrenti casi di bird strike) sono una responsabilità della società che gestisce l’aeroporto. Sotto tale luce non si ravvede il motivo di ritenere responsabile chi involontariamente perde un pezzo del suo aereo in fase di decollo, senza voler minimamente considerare la posizione di chi avrebbe dovuto costantemente monitorare l’agibilità della pista in uso. Anche senza voler essere draconiani nel senso di addossare tutta la colpa a uno o all’altro, almeno una certa “compartecipazione” delle responsabilità non sarebbe certo apparsa fuori luogo.
Questa nostra riflessione viene anche proposta per far capire in quali meandri di cavilli ci si può introdurre nel caso in cui all’investigazione aeronautica si sostituisca invece quella penale.
Allora adottando lo stesso metro, qualche giudice in Brasile potrebbe ritenere opportuno aprire una causa contro Air France atta ad appurare se la compagnia abbia messo in atto tutte quelle misure preventive e oggettive che avrebbero potuto evitare che l’Airbus 330 Rio-Parigi precipitasse in Sud Atlantico nel bel mezzo di una tempesta provocando la morte di tutti i 228 occupanti fra i quali molti (59) erano appunto cittadini di nazionalità brasiliana.
Noi riteniamo che nell’ambito di rendere sempre più sicuro un sistema di trasporto e se vogliamo anche rendere giustizia alle tante vittime che hanno accompagnato lo sviluppo di questo mezzo di trasporto ormai usato da oltre 2 miliardi di passeggeri ogni anno, avvalersi di lunghi processi, immancabilmente seguiti da ricorsi che si dipanano fra infiniti rivoli di cavilli giudiziari e legali, non è affatto il modo migliore per prevenire il ripetersi delle sciagure aeronautiche, tutt’altro.
Antonio Bordoni