Nell’ottobre dello scorso anno la Singapore Airlines ha annunciato che avrebbe sospeso il suo volo a lungo raggio no-stop fra New York e Singapore a causa della sua antieconomicità. Il collegamento in questione deteneva il record del volo più lungo senza scalo: 15,300 km che venivano coperti in 18 ore e 30 minuti. La decisione del vettore asiatico non è isolata ed è stata seguita a ruota da altre compagnie che operavano voli intercontinentali. La ritirata ha consegnato il primato del volo più lungo alla Qantas sulla rotta Sydney-Dallas (13,700 km).
Aldilà della attrattiva che classifiche di questo tipo sempre svolgono sull’opinione pubblica, un particolare emerge dalla scelta fatta e consiste nel fatto che in contemporanea all’annuncio della sospensione del volo è stato pure detto che, a conti fatti, l’unico modo per poter andare in attivo sulla rotta in questione era quello di configurare l’aereo con un centinaio di posti in business e riuscire a venderne almeno 98 su ogni volo alla tariffa di 8,000 dollari andata/ritorno: cifre da capogiro per qualsiasi responsabile di compagnia aerea ma che evidentemente debbono avere un fondamento di verità.
Quest’ultima precisazione è un ottimo spunto per approfondire il tema delle tariffe aeree e proporre una riflessione che a prima vista potrebbe sembrare del tutto provocatoria, ossia che le tariffe aeree così come oggi vengono immesse sul mercato non coprono affatto il costo della rotta interessata, da cui il continuo proliferare di bilanci in perdita da parte della maggior parte dei vettori. Definiamo la riflessione provocatoria in quanto è risaputo che la “percezione” che l’opinione pubblica ha circa il costo di un viaggio aereo è che esso sia eccessivamente oneroso. Nella formazione di un tale concetto gioca un ruolo fondamentale l’ignorare i componenti che incidono sulla tariffa aerea.
Nel trattare l’argomento due opposti eventi vanno presi in considerazione: da una parte l’aver reso l’aereo un mezzo alla portata di tutti, dall’altra l’incessante lievitare di tasse, balzelli e oneri vari a carico dell’industria aerea; sono evidentemente quest’ultimi i responsabili dell’errata percezione di cui sopra.
Quando nel 1952 la Pan American riuscì a convincere la Iata ad introdurre la classe turistica a bordo dei voli internazionali le compagnie aeree godevano della massima protezione dei rispettivi governi. La mossa dell’allora compagnia aerea numero uno al mondo puntava al preciso scopo di far volare anche coloro che non potevano permetterselo. Ma in quegli anni gli aeroporti erano statali, in quegli anni l’assistenza al volo veniva assicurata da personale militare, in quegli anni le compagnie non si facevano una fratricida concorrenza…. Insomma i costi a carico delle compagnie aeree erano senz’altro inferiori a quelli attuali.
L’introduzione della “seconda classe” a bordo degli aerei significò una riduzione delle tariffe fino ad allora applicate del 38 per cento. Per andare al concreto, nel 1959 un volo da Roma a New York e ritorno che costava in prima classe 594.800 lire, in classe economica avrebbe pagato 369.800 lire; un Roma-Londra andata/ritorno in prima classe 131.100 , in classe turistica 96.300.
Il taglio del 38 per cento venne applicato con la ovvia speranza che l’utenza del mezzo aereo crescesse nei numeri, ricordando che in quegli anni su ogni aereo che volava nel mondo si portavano mediamente 29 passeggeri con un load factor medio del 55 per cento.
Vi sono vari studi ampiamente ignorati i quali dimostrano cosa è veramente accaduto e per quale motivo il costo del biglietto aereo viene ritenuto eccessivo, eppure tutti continuano a far finta di niente. Negli Stati Uniti l’associazione dei vettori aerei A4A (Airlines for America) avverte che su un biglietto aereo per il quale il passeggero ha sborsato 300 dollari, il 20% (61,49USD) vanno in tasse federali; il 21% (63,47) è assorbito dal costo carburante; il 17% per il costo del lavoro (51,52); il 41% viene coperto da tutte le altre spese operative (123,11) e lo 0,1% (41cents) è il profitto per l’aerolinea: questa è la ripartizione delle entrate su una tariffa aerea. Una ripartizione che dovrebbe far riflettere.
Studi di siffatta portata non sono affatto nuovi e dovrebbero servire a convincere chi guida le economie di una nazione a non gravare con nuove tasse i conti di una certa industria, ma i fatti dimostrano esattamente il contrario basti citare il recente caso della charge sulle emissioni ETS o la multa di 275.000 dollari che viene applicata ai vettori i cui aerei rimangono a terra per più di tre ore (tarmac delay rule).
Ciò che si vuol qui evidenziare è che se l’incremento nel numero passeggeri che ha caratterizzato l’industria aerea avesse riguardato un modello di tariffazione la quale, come nel passato, per il 95% dell’incasso andava al vettore, forse oggi le compagnie aeree avrebbero avuto conti in miglior salute. Ma quando il 20 per cento dell’esborso del passeggero si riferisce a tasse appare evidente che una tariffa elevata (che coprisse realmente i costi) aggiunta a tasse elevate renderebbe il prezzo dei viaggi improponibile e di fatto vanificherebbe quell’incremento nel numero passeggeri del quale le aerolinee non possono assolutamente fare a meno.
Lo studio dell’Ata conferma in pieno una voce che insistentemente circola nell’ambiente del turismo e dei viaggi: nella filiera del trasporto aereo tutti fanno soldi tranne le compagnie aeree.