Lo spettacolo indecoroso andato in scena nei giorni dell’eruzione del vulcano islandese dal nome irripetibile, ha segnato un ulteriore grado di scadimento nella qualità dell’aviazione civile. I nostri jet continuano a volare lo stesso, avvertiva una compagnia aerea; è tutta una bufala, avvertiva un’altra; ci hanno fatto fermare sulla base di teoremi gridava un altro vettore… e nel frattempo i passeggeri si accampavano negli aeroporti in attesa di capire qualcosa. E già perché nel gran caos si dava sempre per scontato che probabilmente c’era la possibilità che i voli riprendessero da un momento all’altro. E così come ben sanno gli agenti di viaggio abituati ai problemi di uffici e personale di aerolinee cui chiedere lumi inesistenti, di numeri verdi perennemente occupati, di personale negli scali – nella migliore delle ipotesi – ridotto all’osso, la sceneggiata è proseguita per ben cinque giorni quando,  ricalcando la scena di fantozziana memoria “e al quinto la polizia si inc…”  qualcuno ha gridato “riapriamo i cieli !” E improvvisamente la nube si è disciolta e i voli sono ripresi.

Quale miracolo era accaduto? I venti e le piogge avevano portato altrove le temibili ceneri? Non è proprio andata così, diciamo piuttosto che quando sono iniziate a circolare le cifre relative ai milioni che si perdevano ogni giorno, quando aerolinee e aeroporti hanno avanzato la minacciosa richiesta di sussidi, le ragioni economiche sembra abbiano avuto il magico potere di far dissolvere la cenere.

Esagerato? Bene ammettiamo di aver romanzato gli eventi, ma la sostanza rimane invariata.

L’aviazione civile per la prima volta si è trovata a fronteggiare una eruzione di un vulcano non in Indonesia o nelle Filippine o in qualche sperduta isola di un oceano, ma in un continente ad alta concentrazione aeroportuale, e solo allora ci si è accorti che gli enti che avevano la responsabilità di chiudere, all’occorrenza, i cieli erano impreparati a gestire l’evento. Questo è senz’altro un primo dato certo, incontestabile.

Ora cerchiamo di vedere come ciò possa essere accaduto. Allora, vi ricordate la storia dell’aria contaminata che si respira a bordo degli aerei e delle cause portate avanti su tale argomento da non pochi dipendenti di compagnie aeree? (“Che aria tira a bordo ?” Travelling Interline , Febbraio 2009) Bene, con qualche variante lo stesso evento è trasponibile nel caso dell’eruzione vulcanica islandese.

Quando i giudici chiamati a dirimere il contenzioso fra equipaggi malati e aerolinee, cercavano lumi su quale fosse il grado di misura superato il quale l’aria si doveva considerare non salubre, ci si accorse che gli enti preposti a  dirigere l’aviazione civile non si erano mai preoccupati di aver certificato  una simile importante definizione. In mancanza di ciò ancora non si è potuto dire con certezza a quale valore l’aria di bordo diventa a rischio.

Ebbene torniamo al vulcano.

Il pericolo delle ceneri vulcani è conosciuto nel settore fin dagli anni ottanta quando avvennero i primi drammatici incidenti di spegnimento motori, dichiarazioni di mayday, e fortunose riprese di quota grazie al fatto che essendo sceso di altitudine il velivolo si portava involontariamente al di fuori della nube, e i motori riprendevano a funzionare. Ma le cose, come poi doveva apparire chiaro in seguito, non erano così “semplici”. Nel corso degli anni sono avvenuti numerosi episodi in cui gli aerei hanno volato nelle nubi vulcaniche senza saperlo (i radar di bordo non individuano la cenere in questione) e durante i maintenance check ci si accorgeva che i motori o erano da buttare via, o dovevano subire costosissime riparazioni.

Il pericolo quindi può assumere diverse sfaccettature e le aerolinee questo lo sanno bene. Attualmente in caso di cenere il volo è fattibile purché si eviti di far volare l’aereo in aree per così dire “contaminate”. E qui torniamo a quanto detto sull’aria di bordo: quando una determinata area si può considerare contaminata, e quindi da evitare? Risposta: non si sa.

La verità è questa, perché se è ovvio che la nube principale di per se stessa è individuabile e evitabile, gli sciami di cenere che vengono diffusi a differenti quote dalle correnti aeree non lo sono.

E comunque né i produttori di motoristica, né l’ICAO hanno ancora stabilito un indice, un valore misurabile prendendo atto del quale le autorità aeronautiche possono – con ragione – chiudere lo spazio aereo.

La conclusione di questa poco edificante storia è che l’aviazione civile si è fatta cogliere impreparata dall’evento in questione, su ciò non possono esservi dubbi. Inoltre va senz’altro detto che i commenti fatti da dirigenti di aerolinee, i quali non potevano non essere al corrente di come tecnicamente stanno le cose, per sollecitare la riapertura dei collegamenti, sono da ritenersi assolutamente inopportuni. Fintanto che non si stabilisce un sistema che determini dove si trovano le ceneri e a quale concentrazione esse diventano un fattore critico, il rischio, nella più ottimistica delle ipotesi pur limitato al solo danneggiamento della componentistica del velivolo, sussiste.

Antonio Bordoni